Forse è il caso di fermarsi un secondo, a mente fredda e fare il punto della situazione. Non per altro, ma perché ormai la fregola della riapertura a tempo di record è diventata maggioritaria nel Governo, lasciando solitario al suo destino il ministro Speranza. Il quale, dopo aver egregiamente operato da parafulmine e capro espiatorio, ora pare essere divenuto politicamente sacrificabile sull’altare della fedeltà leghista all’esecutivo, stante i dossier a dir poco scottanti di cui il ministro Giorgetti sta facendosi carico.
Ve lo avevo detto in tempi non sospetti: la retorica dello spread basso che ci permette di spendere e spandere a nostro piacimento e quella ancora più pericolosa dei mitologici 209 miliardi dell’Europa erano destinate a scontrarsi con la prova dei fatti. Proprio al primo vagito di riapertura post-pandemica. Troppe le criticità, al netto dei sostegni: in primis, l’annosa questione di licenziamenti e sfratti che peserà come un macigno sulle sofferenze bancarie. Ecco quindi che, al netto dell’ennesimo scostamento che pagheranno i vostri figli e nipoti, la nuova filosofia è quella rilanciata da Mario Draghi in persona: I migliori ristori sono le riaperture. Ovviamente, in sicurezza. Tanto per pararsi formalmente la coscienza, stante i numeri quotidiani di contagi e decessi.
Quella formula, ormai, è vuota e rituale come il bugiardino di un farmaco. Non a caso, la tanto vituperata Germania, la quale ha a disposizione del proprio sistema sanitario tre volte le terapie intensive dell’Italia, si sta preparando a un altro lockdown duro. Ma duro davvero. Perché signori, parliamoci chiaro: la zona rossa che abbiamo vissuto la scorsa primavera non aveva nulla a che fare con la pagliacciata di queste ultime settimane. E ve lo dice uno che vive a Milano, città appena uscita dall’area di massimo pericolo. A parte i negozi chiusi, la gente in giro circolava tranquillamente. L’autocertificazione non sapeva nemmeno dove fosse finita. E non parliamo delle deroghe che gli esercenti si inventavano per restare aperti, seppur a scaffali ridotti (ufficialmente), perché meriterebbero il Nobel per la fantasia, se esistesse.
Perché dico questo? Certamente non perché ami vivere in una città fantasma. Ma perché la retorica fra il ridicolo e l’irresponsabile di chi continua a portare il Regno Unito post-Brexit come modello, solo per attaccare Bruxelles senza aver il coraggio di farlo direttamente (stante il polmone d’acciaio che l’Ue ci garantisce sui conti), rischia davvero di fare danni incommensurabili. Da qui a poco.
Sentendo le trasmissioni in tv, pare che in Gran Bretagna sia tornato tutto normale. Di colpo. Soprattutto i pub, un monumento nazionale assoluto. Balle. Primo, andate a cercare e scaricare il piano delle riaperture britanniche sul sito del Governo. Lunedì scorso sono stati aperti i negozi, esattamente come nelle nostre zone arancioni. L’unica differenza davvero sostanziale? Bar, ristoranti e pub. Ma solo all’esterno. Ovvero, chi ha i tavolini all’aperto. La prossima revisione, in vista di reali riaperture totali (e non quelle ulteriormente parziali del 17 maggio)? Fissata, già oggi. Ma per il 21 giugno. Oltre due mesi di regime semi-libero, oltre due mesi di zona arancione: scusate, dove sarebbe l’enorme differenza rispetto a Milano, se togliamo la ristorazione all’aperto?
Ma c’è di più. Perché Boris Johnson l’altro giorno ha dimostrato di essere, quantomeno, intellettualmente onesto. Sapete cosa ha dichiarato, intervistato da SkyNews, nel giorno della riapertura parziale? «I numeri stanno scendendo: infezioni, ricoveri, decessi. Ma è importante che tutti capiscono che il calo di questi dati non è stato ottenuto con il programma di vaccinazione. Credo che la gente non si renda conto del fatto che il lockdown è stato fondamentale per arrivare a questi miglioramenti nella gestione della pandemia e per arrivare a queste cifre». Chapeau, di fronte a un politico che, seppur tardivamente e dopo ettolitri di retorica, dice la verità. Ma parliamo di un lockdown vero. Come quello tedesco, il quale appena i Land hanno cominciato a fare idiozie e operare a colpi di deroghe, ha costretto Angela Merkel ad avocare a sé – inteso come governo centrale – le decisioni finali sulla gestione delle chiusure. A livello nazionale. E in un Paese dove il federalismo è reale, altro che Titolo V. Non a caso, le idiozie dei Land ora si stanno tramutando nuovamente in un picco di contagi e nell’intasamento delle terapie intensive. Detto fatto, si torna – con ogni probabilità – a chiudere. Pressoché tutto. Ma lo si fa dove gli scostamenti monstre mantengono comunque i conti pubblici in assoluta linea di gestibilità. Qui, invece? In quale area di allarme rosso viaggia già oggi la ratio debito/Pil? E quella deficit/Pil?
Lo so che ormai va di moda negare l’esistenza del problema, tanto c’è la Bce che compra e la sospensione del Patto di stabilità per tutto il 2022, ma signori, prendetene atto: non sarà così per sempre. Anzi, manca poco. Perché il mercato specula, ovvero guarda in avanti: e prezza con molto anticipo. Cosa? Ad esempio, il fatto che i saldi – da qui alla fine del programma Pepp – resteranno pressoché invariati. In caso di rischio stile 2011, forse verrà utilizzato l’envelop. Punto. E non perché il 26 settembre in Germania si vota e allora tocca tornare a mostrare la faccia cattiva del rigorismo verso gli elettori, bensì perché si sta disintegrando il sistema dall’interno. I danni che una politica criminale come quella della Bce sta generando, giorno dopo giorno, a livello economico trasformeranno sul lungo termine quelli ascrivibili ai lockdown in una passeggiata nel parco.
Unicredit e Fineco hanno già avvisato i loro correntisti: la prima cambia le condizioni del Conto Genius, la seconda minaccia la chiusura unilaterale dei conti con giacenze superiori ai 100.000 euro non investiti. Vogliamo parlare delle zombie firms, le stesse che Mario Draghi evocò come nemico giurato di un tessuto produttivo sano, parlando al Meeting di Rimini? Sono ovunque, proliferano e rubano quote di mercato, credito e capitale ad aziende solvibili che solo la pandemia ha mandato in crisi. E non conti fallimentari presenti nei bilanci già prima del Covid. Signori, piaccia o no, il libero mercato e l’impresa non sono per tutti. Sono una lotta quotidiana, altrimenti si può scegliere la carriera statale, da dipendente pubblico in smart working. Quando un paio di editori con poco senso degli affari hanno chiuso, pressoché dalla sera alla mattina, i giornali con cui collaboravo nel 2010-2011, mi sono ritrovato a dovermi rimboccare le maniche. Non mi ha aiutato nessuno: né lo Stato, né l’Ordine dei giornalisti. E, in totale, dai due concordati devo ancora prendere oltre 14.500 euro. Che non vedrò mai, a distanza ormai di oltre 10 anni. In compenso, le spese fisse ho continuato anch’io a doverle pagare. E le banche non mi hanno garantito nemmeno un euro di certificazione di quei crediti. Zero. Il tutto, essendo figlio di un impiegato dell’Enel passato a miglior vita troppo presto e di una casalinga che campa con la sua pensione di reversibilità, dovendoci pagare un affitto. Difficile darmi del figlio di papà, quindi.
Se faccio questo ragionamento, è proprio perché so quanto possa essere spietato il mondo del lavoro che c’è fuori. Ma non è con i ristori e i sostegni che si va avanti. Parliamoci chiaro, quanti ristoranti, gastropub e amenità da Masterchef-mania sono nati a Milano negli ultimi anni? Non possono stare tutti sul mercato, semplicemente perché non esiste una Bce che viene a pranzo e cena garantiti e paga il conto: occorre fare ricorso alla vecchia, cara legge della domanda e dell’offerta. E se quest’ultima diviene non solo infinita, ma addirittura inflazionata a livello di supply glut, poi le dinamiche si intoppano. E le crisi come quelle che stiamo vivendo, paradossalmente, servono darwinianamente e soprattutto schumpeterianamente a rimettere in equilibrio le cose. Per questo, si dice che il mercato si autoregola. Perché non c’è la mano più o meno visibile dello Stato a raddrizzare le storture, fino a rompere il tubo e allagare la casa: resiste il più forte, il più solvibile, il più bravo, il più creativo. Gli altri devono cercare altro da fare.
Non è scritto da nessuna parte che uno debba per forza fare l’imprenditore. Né, tantomeno, che debba poter girare in Ferrari dopo due anni di attività nella ristorazione, se proprio vogliamo parlarci chiaro. Dando vita allo scostamento da 40 miliardi, il Governo ha oggettivamente fatto l’unica cosa che poteva fare. Ma anche l’ultima, potenzialmente. Quanto deciso dal Consiglio dei ministri, sappiatelo, è figlio delle proteste di piazza e dell’atteggiamento della Lega: di fatto, Mario Draghi ha agito per mera tutela dell’ordine pubblico e non per convinzione o convenienza economica del Paese. Tre quarti delle aziende che si andranno a ristorare con il nuovo deficit, erano comunque destinate a sopravvivere o poco più. E moriranno entro pochi mesi. Comunque. Il Covid è stato un accelerante, non il vettore inatteso di una morte fulminante.
Certo, ormai viviamo nel mondo dell’helicopter money, del debito pubblico che rappresenta la ricchezza di un Paese, della Bce che deve fare come la Fed perché le Banche centrali servono a quello, della retorica del prestatore di ultima istanza come alternativa più esotica al vecchio e poco edificante concetto di assistenzialismo e statalismo. Leva Roma e metti Bruxelles, ma il risultato non cambia. Signori, stiamo sbagliando tutto. E ne pagheremo un prezzo enorme, fin dal prossimo autunno. Quando l’uomo del Colle, ovvero il Premier voluto dal Quirinale proprio a tal fine, metterà giocoforza mano alla situazione, fra patrimoniale e riforma del sistema pensionistico. Altro che Mario Monti, ve lo assicuro.
Ma l’alternativa sarebbe ben peggiore. Si chiama Grecia. E non pensiate che la coalizione eterogenea che oggi sostiene il Governo lo farà cadere, in nome del non collaborazionismo con una macelleria sociale. Perché già oggi i prodromi di un re-princing del nostro debito circolano quotidianamente nella sale trading e fra gli analisti di risk management di fondi, banche e soprattutto assicurazioni. Non date per scontato lo spread attuale (tra l’altro, già stabilmente tornato in tripla cifra), perché rappresenta il corrispettivo finanziario di una società senza più regole di mercato, né concetto di debito: un’illusione.
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