Spesso accusato di giustizialismo propagandistico, il procuratore Nicola Gratteri è forse ad oggi il pubblico ministero più noto ma è sicuramente il più esposto nella lotta alla ’ndrangheta oltre che ai santuari più occulti del potere. Icona di rettitudine e per questo contraltare alle degenerazioni del sistema Palamara, il procuratore Gratteri nelle ultime settimane è stato al centro, suo malgrado, di una tempesta mediatica per aver redatto la prefazione ad un chiacchierato libro sull’economia al tempo del Covid, vicenda che ha chiarito senza false ipocrisie, così come ogni suo intervento pubblico determina eccessive attenzioni sfociando nell’accusa di protagonismo.
Di certo, viene da chiedersi perché si sia, da parte di molti, deciso di entrare in questa vicenda cosi a gamba tesa mentre in altri casi, ben più gravi, si sia scelto di restare silenti.
Procuratore Gratteri, lei da sempre è in prima linea alla lotta alla criminalità organizzata. Pensa che la soluzione del problema possa essere solo giudiziaria o militare?
No. Non solo non penso che il contrasto alla ’ndrangheta e alle altre mafie debba o possa avvenire esclusivamente per via giudiziaria o militare, certo da magistrato il mio compito è quello di seguire la via giudiziaria e della legge, ma, proprio la mia esperienza di magistrato, la mia conoscenza della Calabria, mi ha portato, fin dai primi anni della mia attività, a capire che la ’ndrangheta è una questione storica, sociale, culturale di questa terra. Ho sempre sostenuto e scritto che la scuola, le parrocchie, la “società civile”, sono fondamentali per fare conoscere la ’ndrangheta e per contrastarla. Bisogna far comprendere ai giovani, alle nuove generazioni che delinquere non conviene.
Questo è quello che spiega anche in alcuni dei suoi libri. Ma proprio a causa di questi libri o collegate apparizioni televisive c’è chi l’accusa di eccessivo protagonismo. Cosa risponde?
Senza mai sovrapporre il mio ruolo di magistrato e di uomo di legge con quello di analista e studioso del fenomeno ’ndranghetista, ho pensato fosse importante andare a ricostruire le motivazioni storiche, sociali, antropologiche della ’ndrangheta. Per questi motivi ho pensato di spiegare con i miei libri e nelle scuole, nei paesi e nei luoghi in cui mi invitavano (verificando sempre da chi e in quale contesto), le retoriche, le mitologie, le menzogne della mafia. Non sono storico di formazione, ma assieme a Nicaso, ho cercato di dire ai giovani di fare attenzione alle sirene della malapianta, al modo con cui essa utilizzava e strumentalizzava i valori e le culture e i bisogni della gente. Ho dedicato molte ricerche e molte pagine per mostrare che non c’è una “buona mafia” che aiuta i poveri e che risolve i problemi della gente e ancora per contrastare certa propaganda revisionista che vantava una vecchia buona criminalità e una nuova ’ndrangheta violenta.
La ’ndrangheta è stata sempre violenta, feroce, crudele, ha impedito lo sviluppo dell’economia e dei rapporti civili, e certe posizioni appaiono giustificazioniste del malaffare. Non so se ho svolto bene questo compito di divulgazione, informazione, assieme a docenti, dirigenti, altri studiosi, ma io ho messo tanta energia e tanta passione, sottratte non al mio lavoro di magistrato ma al mio poco tempo libero e alla mia famiglia, che vive “prigioniera”, per dialogare con i giovani delle scuole di ogni ordine e grado, per rispondere alle loro domande, e per sostenere l’impegno culturale e pedagogico del mondo della scuola. Qualcuno mi rimprovera di protagonismo o di eccesso di visibilità? Poco male, se con questi “interventi” riesco a convincere anche una sola persona ad abbandonare falsi miti, a denunciare angherie e soprusi va bene così, mi criticassero quanto vogliono.
Quindi lei è sostanzialmente d’accordo con quanto diceva Paolo Borsellino che ripeteva “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene”.
Assolutamente sì. E come diceva Polo Borsellino “la lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”. Questo è il motivo per il quale, nonostante le critiche a cui lei faceva prima riferimento, continuo incessantemente a parlare di mafie ogni qual volta ne ho l’occasione; bisogna stanarle, bisogna fare sentire a chi è vittima di questi soprusi che non sono soli, che lo stato è da loro parte. E comunque, giusto per ricollegarmi a quanto prima detto, certo ci sono le apparizioni televisive (peraltro molto meno delle richieste) ma le assicuro che ci sono anche le visite nelle scuole e nei paesi, spesso vuoti, freddi, abbandonati, dove non ci sono telecamere appresso, non c’è visibilità, dove però è palpabile una voglia di riscatto, e dove tutto è cominciato e dove tutto finirà e dove sempre continuerò ad andare, perché è la mia terra.
Cosa risponde a chi la definisce solo un “santone dell’antimafia”?
Che non è un mio problema.
(Antonio Pagliano)
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