CASO ALITALIA E UE. Le regole dell’Europa sul trasporto aereo debbono essere ben strane se in base a esse sono stati autorizzati nel caso dell’Italia ristori pubblici solo col contagocce, peraltro ex post rispetto agli effetti della pandemia e dopo attenta e minuziosa verifica dei conti del principale vettore, realizzata rotta per rotta. Invece le stesse regole hanno permesso il via libera in favore dei due maggiori gruppi aeronautici dell’Unione europea ad aiuti di Stato, concessi sulla fiducia all’inizio della pandemia e dunque prima che si potessero conoscere gli effetti economici sul settore, superiori ai 10 miliardi ciascuno.
L’ordine di grandezza di questi aiuti è circa il doppio delle perdite di bilancio registrate da ogni gruppo nel 2020 e almeno il triplo del fabbisogno di cassa generato dalla gestione industriale dei medesimi nello stesso periodo.
Nel caso di Alitalia i ristori autorizzati da Bruxelles hanno invece coperto solo circa un terzo delle perdite annue da bilancio e meno della metà del fabbisogno di cassa, causando il quasi totale prosciugamento delle casse aziendali e l’impossibilità per l’azienda di pagare per tempo i pur striminziti stipendi del mese di marzo, falcidiati dalle poche ore lavorate a causa della cassa integrazione a rotazione. Possibile che le stesse regole abbiano prodotto trattamenti così differenziati? Oppure non sono le regole ad aver prodotto queste differenze ma è solo la loro interpretazione, forse un po’ troppo libera, e la conseguente applicazione non delle regole ma dell’interpretazione? Perché se così fosse non si tratterebbe solo di differenze ma anche di disparità, rispetto alle quali chi è danneggiato avrebbe tutto l’interesse a ricorrere alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Che anche nella Bruxelles della rigorosissima Unione si segua la massima coniata sulle sponde del Mediterraneo, e a suo tempo attribuita a Giolitti, secondo cui le regole si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici?
La Direzione Concorrenza dell’Unione europea, guidata dal Commissario Vestager, dovrebbe essere regolatore e arbitro imparziale del mercato unico del trasporto aereo, così come degli altri mercati, impedendo che la concorrenza sia falsata da aiuti pubblici tanto agli operatori più deboli quanto, a maggior ragione, a quelli più forti. Quando questi aiuti pubblici divengono indispensabili in misura consistente a causa di eventi esogeni dirompenti, come avvenuto a causa del Covid, dovrebbero essere approvati in base a un criterio unico, definito ex ante e valido per tutti gli operatori di tutti i Paesi. Così però non è stato e i criteri adottati sono risultati due, uno restrittivo per gli operatori deboli e uno di fatto tollerante per gli operatori forti. In questo modo Alitalia, che era in crisi già prima del Covid, si è vista centellinare le risorse pubbliche autorizzate e ha avuto per l’anno trascorso solo 297 milioni di ristori, corrispondenti al 9,5% del suo fatturato annuo ante-Covid. Invece il gruppo Lufthansa è stato autorizzato ad aiuti pubblici ai suoi differenti vettori per 11 miliardi complessivi, i quali corrispondono a più del 40% del suo fatturato aeronautico annuo ante-Covid. Se il criterio fosse stato unico e identico a quello applicato all’Italia gli aiuti sarebbero stati pari solo a 2,6 miliardi.
Siamo sicuri che questo criterio double face sia compatibile coi trattati europei? Accertarlo è molto importante per l’Italia poiché le conseguenze del regolatore europeo asimmetrico vanno ben oltre le differenze quantitative negli aiuti di Stato autorizzati. Esse ci obbligheranno infatti, in assenza di ripensamenti, a scegliere tra liquidare definitivamente Alitalia e rinunciare per sempre a un vettore nazionale oppure far decollare la nuova compagnia ITA ma con dimensioni talmente ridotte e caratteristiche talmente improprie da renderla completamente inidonea a competere sul mercato e dunque destinata a un sicuro quanto rapido insuccesso.
Oltre a questo il contribuente italiano dovrà sborsare molti più soldi in quanto in aggiunta ai tre miliardi stanziati in origina per un’ITA che doveva ereditare l’intera Alitalia dovrà mettere in conto altri miliardi, in una forbice tra i due e i tre, per farsi carico della protezione sociale degli oltre ottomila lavoratori che nella nuova piccola azienda che tanto piace all’Europa non potranno trovare posto in alcun modo. Quando Meridiana disponeva di una flotta di 40 aerei dava lavoro a 2.500 dipendenti e questo è anche il fabbisogno vero di lavoro dell’azienda che si appresterebbe a decollare.
Infine, occorre considerare la perdita di valore degli asset che resterebbero nella proprietà dell’amministrazione straordinaria in quanto non voluti dalla newco. L’asset attuale di maggior valore è senza dubbio il marchio, purché riferito a un’azienda funzionante e dunque in grado di portare con sé anche gli asset immateriali quali la clientela, gli slot e tutto quanto va sotto il nome di avviamento. Chi si comprerebbe il marchio di un’azienda non più operativa, oltretutto spendibile solo da chi voglia volare sui cieli nazionali? Un collezionista plurimiliardario? Un museo dell’aviazione? Non sappiamo. Di certo a un prezzo pari a una piccolissima frazione dell’ipotesi opposta.
Ma cosa dicono esattamente i trattati europei sul tema di cui stiamo parlando? Gli interventi sono stati autorizzati dalla Commissione, previa notifica da parte degli Stati membri, ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 2 lettera b), e paragrafo 3 lettera b), del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) e alla comunicazione applicativa emanata dalla Commissione europea dal titolo Quadro temporaneo per le misure di aiuto di Stato a sostegno dell’economia nell’attuale emergenza del Covid-19 che è stata pubblicata il 20 marzo 2020. In particolare l’art. 107 paragrafo 2 lettera b) dispone che gli aiuti di Stato sono compatibili se “destinati a ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali” mentre l’art. 107 paragrafo 3 lettera b) dispone che gli aiuti di Stato sono compatibili per “porre rimedio a un grave turbamento dell’economia di uno Stato membro”.
È opportuno precisare che l’articolato del “quadro temporaneo” del 20 marzo 2020″ non esclude in alcun modo dagli “Aiuti di Stato consentiti” quelli relativi ad aziende sottoposte a una procedura concorsuale o che fossero in condizioni di difficoltà all’inizio della pandemia. Esse di certo hanno subito come le altre lo shock esterno e, trovandosi in una situazione di maggiore debolezza rispetto alle altre, lo hanno subito con conseguenze maggiori e sicuramente non minori. Dunque gli aiuti consentiti, applicando criteri di equità verticale, dovrebbero proteggere in egual misura i vettori dalle conseguenze della pandemia pur senza necessariamente proteggerli da difficoltà preesistenti di altro tipo.
Ma vediamo gli aspetti di maggior rilievo della Comunicazione che definisce il Quadro temporaneo. Il punto 4 così recita: “Nelle circostanze eccezionali determinate dall’epidemia di Covid-19, le imprese di qualsiasi tipo possono trovarsi di fronte a una grave mancanza di liquidità. Sia le imprese solvibili che quelle meno solvibili possono scontrarsi con un’improvvisa carenza o addirittura con una mancata disponibilità di liquidità e le PMI sono particolarmente a rischio. Ciò può quindi ripercuotersi in maniera grave sulla situazione economica di molte imprese sane e sui loro dipendenti a breve e medio termine e può anche avere effetti più a lungo termine che ne mettano in pericolo la sopravvivenza”. Esso riconosce pertanto che la pandemia può produrre effetti peggiori sulle imprese più deboli e su quelle più piccole, pur introducendo senza darne precisa definizione l’ambiguo concetto di ‘imprese sane’. Quali sono? Quelle in utile? E se sono in utile perché oligopoliste e dotate di un consistente potere di mercato è corretto definirle sane? Ed è corretto invece definire malate le imprese che operano in mercati molto concorrenziali, proprio quelli auspicati e perseguiti dal Trattato Ue, e prive di potere di mercato? E dei dipendenti di queste ultime che ne facciamo?
Al successivo punto 8 invece si legge: “Nelle circostanze eccezionali determinate dall’epidemia di Covid-19, le imprese di qualsiasi tipo possono trovarsi di fronte a una grave mancanza di liquidità. Sia le imprese solvibili che quelle meno solvibili possono scontrarsi con un’improvvisa carenza o addirittura con una mancata disponibilità di liquidità e le PMI sono particolarmente a rischio. Ciò può quindi ripercuotersi in maniera grave sulla situazione economica di molte imprese sane e sui loro dipendenti a breve e medio termine e può anche avere effetti più a lungo termine che ne mettano in pericolo la sopravvivenza“. D’accordo, ovviamente, tuttavia se molte imprese sane sono a serio rischio di sopravvivenza è evidente che quelle meno sane sono destinate a morte certa in assenza di aiuti congrui, che in conseguenza dovrebbero essere più che proporzionali rispetto alle imprese messe meglio e in ogni caso non dovrebbero essere meno che proporzionali.
Qual è la filosofia sottostante queste forme espressive della Commissione Ue? È semplice, si tratta del darwinismo economico: la pandemia è un’ottima occasione per far fuori le imprese più deboli (degli Stati più deboli?), le quali non debbono essere aiutate. E non ha nessuna importanza che i lavoratori di queste imprese finiscano in gravissime difficoltà proprio nel periodo di maggior crisi economica dalla grande recessione degli anni ’30 del 900. Keynes si sarà sicuramente rivoltato nella tomba alla lettura di simili scempiaggini, non essendoci altro aggettivo per definirle né se le consideriamo dal punto di vista etico, né dal punto di vista economico. E neppure se le consideriamo dal punto di vista giuridico. Infatti, nel Trattato Ue, quello firmato dagli Stati, del darwinismo economico non vi è proprio traccia, mentre esso è stato surrettiziamente e occultamente introdotto nel “Quadro temporaneo”. Ma un darwinismo economico ancorché temporaneo è destinato a produrre una morte permanente nei soggetti economici più deboli e grosse difficoltà nei Paesi in cui i soggetti più deboli sono presenti in misura più consistente, cioè nei Paesi più deboli.
Il darwinismo economico è peraltro ribadito dal successivo punto 9 che così recita: “L’epidemia di Covid-19 comporta il rischio di una grave recessione che riguarda l’intera economia dell’Ue, dal momento che colpisce imprese, posti di lavoro e famiglie. Un sostegno pubblico adeguatamente mirato è necessario per garantire la disponibilità di liquidità sufficiente sui mercati, per contrastare i danni arrecati alle imprese sane e per preservare la continuità dell’attività economica durante e dopo l’epidemia di Covid-19″.
Troviamo curioso questo uso del termine “imprese sane”. In base a quale criterio un’impresa deve essere considerata sana? Non dovrebbe essere il mercato a decidere al riguardo? Deve per forza farlo quello che dovrebbe essere invece arbitro neutrale e indifferente? È l’arbitro che deve cacciare i più deboli fuori dalla competizione? Nello sport non ci risulta, per fortuna. Ma forse la Commissione Ue non segue la prassi dello sport. Però per coerenza che cambi almeno il nome della “Direzione generale per la concorrenza” in modo da adeguarla ai nuovi obiettivi perseguiti. “Direzione generale per l’oligopolio” sarebbe senz’altro una denominazione più coerente con il testo del “Quadro temporaneo” di cui vi abbiamo commentato alcuni estratti.
(2- continua)
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