La puntualissima analisi sulla condizione degli istituti tecnici fatta lo scorso 7 aprile da Maria Grazia Fornaroli sul Sussidiario sconfina giustamente anche su aspetti che riguardano gli altri grandi settori della scuola superiore di secondo grado: i licei e i professionali.
Condivido pienamente quanto la Fornaroli afferma sui tecnici e, per i licei, avrei solo da aggiungere che il loro successo è legato anche all’aver mantenuto, soprattutto negli indirizzi tradizionali, una loro identità. Al contrario, i tecnici, ma soprattutto i professionali, sono stati negli ultimi decenni letteralmente massacrati dalle varie riforme e dai numerosi aggiustamenti alle stesse; aggiustamenti spesso legati alla mera moltiplicazione del numero delle cattedre. Come i tecnici, anche gli istituti professionali, in particolare gli alberghieri che ne rappresentano la parte più consistente, sono spesso ospitati in strutture inadeguate, ove la mancanza di laboratori, macchinari, strumentazioni e perfino aule rappresentano da molti anni il normale stato delle cose.
Se per i tecnici vi è la possibilità di poter proseguire nei corsi Its, purtroppo in maniera limitata, visto l’inadeguato investimento economico a loro destinato, per i professionali questa opportunità è molto più limitata. Per esempio, in Toscana nessun corso Its è dedicato a valorizzare i talenti degli istituti alberghieri negli indirizzi di Sala e Cucina. Così chi se lo potrà permettere, ma tra i ragazzi dei professionali non ve ne sono purtroppo molti, se vorrà entrare nel mondo del lavoro con competenze decisamente specialistiche, sarà costretto a frequentare prestigiose scuole di specializzazione in Italia e anche all’estero, ma dai costi altissimi. E per gli altri, per la moltitudine dei ragazzi che non hanno a disposizione le opportune risorse economiche? Se va bene, a 19-20 anni, faranno il loro ingresso nel mondo del lavoro, ma partendo dall’ultimo gradino della scala professionale e spesso costretti a lavori umilianti e altrettanto spesso umiliati dal dover accettare di lavorare in “nero”.
La distruzione degli istituti professionali continua inesorabile oramai da decenni, soprattutto per la scempiaggine di molti di coloro che hanno messo mano alle riforme. I risultati di tanta stoltezza pedagogica e sociale sono inequivocabili: gran parte della percentuale di abbandoni e di Neet proviene non a caso proprio dai professionali. Quelli che si salvano, e che riescono a sopravvivere fino all’esame finale, da anni si ritrovano, come accennato, a rappresentare una manodopera destinata al mero sfruttamento. In alternativa, il nulla o la fuga all’estero perché, paradossalmente, proprio chi esce da questi indirizzi ha minori possibilità, da noi, di trovare un’occupazione.
È oramai del tutto evidente come i professionali si siano fatti spesso diventare delle vere e proprie scuole di frontiera e talvolta anche una sorta di quelle che furono le vecchie scuole differenziali. In questi indirizzi si concentra, infatti, la stragrande maggioranza degli studenti certificati, di stranieri e di coloro a cui la scuola primaria e media non è stata in grado, talvolta anche senza averne colpa, di dare un pur minimo senso di scolarizzazione. In molte classi dei professionali, tanto è alto il numero degli studenti problematici e delle materie, accade spesso che il numero dei docenti di un consiglio di classe superi quello degli stessi studenti.
C’è tuttavia più di un motivo per cui ho sempre scelto di rimanere nel professionale. Quello principale, oltre l’innata spinta a non arrendersi, soprattutto di fronte a giovani che sono alla ricerca di un proprio futuro, resta l’ammirazione sincera per una parte dei docenti di queste scuole che, senza alcun dubbio, è di qualità straordinaria. Uomini e donne che con passione utilizzano la loro profonda preparazione culturale e didattica per garantire ai propri allievi la costruzione del loro futuro.
Purtroppo, insieme a questi, ve ne sono altri demotivati, stanchi, vittime di burn-out e comunque impreparati a far fronte ad una scuola che chiede molto altro rispetto a quando iniziarono a insegnare. E altri ancora, sebbene un’evidente minoranza, sono del tutto inadeguati al loro ruolo e in grado perciò di fare danni spaventosi e irreversibili a intere generazioni di giovani. Docenti che in virtù delle loro inadeguatezze, culturali e didattiche, rimangono ai professionali perché consapevoli che raramente ci sarà qualche genitore che si lamenterà. E seppure dovesse accadere che qualche preside, con una fatica inimmaginabile, avvii nei loro confronti dei procedimenti disciplinari, il massimo che può loro capitare è che il ministero li sposti in altri professionali.
C’è, inoltre, da aggiungere che i tanti aggiustamenti alle “riforme” hanno finito per produrre un tale peso burocratico a docenti e presidi, che alla fine doverne far fronte significa quasi perdere la consapevolezza in cosa consista realmente la propria professione.
Resta ancora da stigmatizzare la presenza di un’alta percentuale di docenti precari: in tanti professionali anche oltre la metà dell’intero organico. Il che significa negare agli studenti, a questi studenti, la continuità didattica che per loro sarebbe invece una assoluta priorità. E la continua rotazione di nuovi docenti impedisce ovviamente di poter portare avanti una reale, perché condivisa, programmazione d’istituto.
Mi sento, infine, di segnalare un altro preoccupante allarme. Un tempo i docenti delle aree professionali erano quasi sempre espressione delle migliori professionalità di zona e in grado spesso di fare da riferimento e veicolo con il mondo del lavoro. Oggi, invece, capita sempre più spesso nelle materie professionalizzanti che ci si trovi di fronte a giovani insegnanti quasi capitati per caso all’interno del mondo scolastico, e perfino privi di una qualsiasi esperienza professionale.
Non c’è altro da aggiungere, se non il senso di vergogna e di rabbia che mi hanno accompagnato durante la stesura di questo articolo.
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