«Continua a danzare. Ma fallo vicino all’uscita di sicurezza, volteggiando senza dare nell’occhio». Il mantra, sinistramente assonante all’immagine dell’orchestra che suona imperterrita e stoicamente rassegnata sul ponte del Titanic mentre ci si accapiglia per un posto sulle scialuppe, arriva direttamente da un trader che, per sua stessa ammissione, «in oltre 30 anni di mercato pensavo davvero di averle viste pressoché tutte». Pressoché, appunto. Perché quanto mostrato da questi due grafici non ha precedenti. Se infatti gli ultimi 12 mesi hanno visto un inflow di capitali esteri nel mercato azionario Usa pari a 376 miliardi di dollari, primato assoluto, la seconda immagine mostra come le equities statunitensi dai minimi pandemici del marzo 2020 abbiano guadagnato qualcosa come il +76%, il terzo più ampio aumento su base annua degli ultimi 100 anni.
Il problema sta nella drastica correzione dei corsi registrata in tutte le occasioni precedenti in cui si era verificato un picco simile. Siamo alla vigilia del tonfo, dopo una corsa a perdifiato? Questo altro grafico pare far propendere per questa ipotesi. O, comunque, non opera da proxy ottimistico: storicamente gli insiders, ovvero i dirigenti di aziende (top executives e direttori) e gli azionisti con un pacchetto di almeno il 10%, non sono mai stati così aggressivi nel vendere i loro titoli. Mai.
E quella che può apparire una mera conclusione intuitiva da presa di beneficio di fine rally giustificata da informazioni di prima mano ha in realtà anche delle basi scientifiche, tanto da aver ispirato un libro a Nejat Seyhun, professore of finanza alla University of Michigan e autore appunto di Investment intelligence from insider trading. La tesi? La ratio aggregata selling-to-buying in un determinato periodo di tempo garantisce un ottimo tracciatore di prospettiva rispetto ai futuri returns nel mercato azionario. Di più, «l’insider trading aggregato predice di fatto i returns aggregati». Ma non solo, «predice anche cambiamenti negli scenari di crescita economica futura con una prospettiva di due anni». Insomma, le scelte dei dirigenti di azienda rispetto al proprio pacchetto di azioni e stock-options non solo possono operare da canarino nella miniera di correzioni azionarie come quelle che il passato ha registrato in momenti di picco simili all’attuale, ma anche come indicatore macro rispetto ai trend della crescita. Eppure, la narrativa generale sembra smentire questo capzioso pessimismo. Il piano Biden sta inondando i conti correnti di milioni di americani che, in prima istanza, hanno fatto volare alle stelle le vendite al dettaglio nel mese di marzo (+9,8% contro le attese di +6,1% e il -2,7% di febbraio) e l’apparente tranquillità della Fed rispetto al rischio inflazionistico opera in contemporanea come assicurazione sulla vita delle equities, poiché pare confermare l’impegno per una politica accomodante ed espansiva ancora a lungo termine.
Ma ecco che proprio l’inflazione sembra dirci qualcosa. E se i possibili rovesci azionari possono trovare confermare di predizione nelle scelte dei managers, il reale impatto delle dinamiche di prezzo negli Usa sta arrivando da una commodity ben poco conosciuta ma assolutamente chirurgica nell’anticipare trend di ampio spettro. Il lumber, cioè il legname da costruzione. E questi due grafici parlano chiarissimo: da inizio anno il prezzo è salito del 60% e questa impennata non interessa soltanto studiosi di statistica e boscaioli, bensì anche la platea più ampia e sensibile chi acquista casa (contraendo spesso e volentieri un mutuo).
Perché stando a calcoli della National Association of Home Builders citati da Bloomberg, quella dinamica si è già trasferita sulla catena e sostanziata in 24.000 dollari di aggravio sul costo di un’abitazione media negli Stati Uniti. Si può chiamarla come si vuole e definirla transitoria come fa la Fed per rassicurare, ma trattasi di inflazione. Insomma, dopo mesi di speranza in una V-recovery dell’economia globale, ora pare affacciarsi il rischio di una V-inflation latente e sottotraccia. E il secondo grafico mostra la simulazione di un modello di fair value che compara appunto la dinamica di prezzo del legname con il rendimento reale del Treasury decennale statunitense, rientrato negli ultimi giorni in area di tranquillità dopo l’impennata di marzo.
A oggi, utilizzando un proxy concreto e non i breakevens, quello yield da corrispondere per vedere piazzato sul mercato il debito Usa a 10 anni non è dell’1,59% ufficiale ma già in area 4%. Il doppio della quota obiettivo della Federal Reserve e, di fatto, un livello che obbligherebbe ad alzare i tassi anche il più convinto sostenitore della politica espansiva e anti-pandemica (o l’ennesimo governatore della Banca centrale turca).
Insomma, esiste una doppia verità quando si parla di mercato e di ripresa economica statunitense: quella della narrativa ufficiale e delle cifre record, infrante praticamente con cadenza quotidiana dagli indici di Wall Street e quella che scivola sotto il pelo dell’acqua, proprio con l’iceberg fatale del Titanic. Ma la questione non riguarda soltanto l’America. Poiché al netto di un market cap globale che con i 1.400 miliardi di capitalizzazione aggiunti solo la scorsa settimana ha toccato la quota record assoluto di 112,4 trilioni di dollari, il 128% del Pil globale, l’indice Dax tedesco viaggia su massimi record assoluti (+12,6% da inizio anno), questo nonostante un nuovo lockdown alle porte, un calo della produzione industriale a febbraio dell’1,6%, una revisione al ribasso della crescita 2021 dal 4,7% al 3,7% e un aumento dei prezzi all’ingrosso a marzo del 4,4% contro il 2,3% del mese precedente (il massimo dall’aprile 2017).
Insomma, al netto della scaramanzia e dell’ottimismo da luce in fondo al tunnel pandemico, può essere giusto continuare a danzare. Ma avvicinarsi all’uscita di sicurezza può essere saggio. O, quantomeno, raccomandabile.
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