Il Documento di economia e finanza recentemente approvato dal Governo, che aggiorna le stime della crescita economica e di bilancio pubblico per l’anno in corso e per il prossimo triennio, traguarda al primo semestre del 2023 il ritorno ai livelli di occupazione precedenti alla pandemia Covid (-3,8% nel corso del 2020-2021 e una crescita del 3,2% nel 2022) in lieve ritardo rispetto ai tempi del recupero del Prodotto interno lordo.
L’ulteriore conferma che ci attendono due anni particolarmente difficili sul fronte del lavoro, soprattutto se si tiene conto del potenziale degli adeguamenti organizzativi delle imprese, delle competenze dei lavoratori e di mobilità del lavoro che dovranno essere messi in moto per ottenere il risultato di recuperare quasi un milione di occupati persi dall’inizio della pandemia, sulla base delle stime aggiornate dell’Istat che tengono conto anche della quota dei cassintegrati da oltre tre mesi, e registrano la perdita di oltre il 10% delle ore lavorate.
Gli effetti negativi si sono riversati per lo più nella crescita delle persone inattive (+740 mila), anziché su quella disoccupata e in cerca di lavoro, per la scarsa possibilità di trovarlo in coincidenza delle fermate imposte per una parte significativa delle attività produttive. Al di là di questo dettaglio importante, i numeri sono pressoché simili a quelli della precedente crisi del 2008-2014, caratterizzata da motivazioni essenzialmente economiche, da una perdita di posti di lavoro distribuita sull’arco di più anni, e da un lento recupero del numero degli occupati precedenti completato nel corso del 2018. Il tutto con un saldo negativo di circa 1,2 milioni di rapporti di lavoro qualificati e di ore lavorate, sostituiti da un analogo incremento di rapporti di lavoro a orario ridotto.
Il paragone con la crisi economica precedente, come vedremo successivamente, è utile per comprendere l’evoluzione del nostro mercato del lavoro, ma le condizioni ambientali per gestire l’attuale crisi sono decisamente migliori rispetto a quelle della precedente. La riduzione delle attività produttive è avvenuta in gran parte per la conseguenza dei provvedimenti adottati dalle autorità dei Governi nazionali per contrastare la pandemia. Gli effetti economici dell’emergenza sanitaria hanno convinto le autorità pubbliche, comprese quelle dell’area Euro tradizionalmente restie, a utilizzare la leva del debito pubblico per stimolare la crescita del Pil e dell’occupazione, e come condizione per rendere sostenibile la crescita dell’indebitamento nel medio e lungo periodo. Il problema principale, soprattutto per i Paesi come l’Italia, è diventato quello di saper utilizzare al meglio le nuove risorse per aumentare il livello della crescita economica, non quello di tagliare la spesa pubblica.
Novità che comportano come prima conseguenza un potenziale raddoppio della quota degli investimenti pubblici nelle infrastrutture, colmando una buona parte del gap negativo del Pil italiano registrato nell’ultimo decennio rispetto alla media dei Paesi dell’Ue; e una riapertura delle assunzioni nella Pubblica amministrazione che potrebbe contribuire alla crescita della domanda per circa mezzo milione di posti di lavoro nei prossimi 5 anni, con effetti positivi sul ricambio generazionale, di genere, e degli occupati con profili di medio-alta qualificazione.
In generale, i tempi di recupero delle perdite occupazionali si preannunciano molto più rapidi per lo straordinario accumulo di risparmio delle imprese e delle famiglie avvenuto nel corso della crisi, circa 180 miliardi di euro, pressoché equivalente al volume degli aiuti erogati dallo Stato nel corso della pandemia (negli anni della crisi precedente la quota del risparmio si era ridotta sensibilmente). Con riflessi positivi per l’economia e soprattutto nei settori dei servizi collettivi e alle persone, penalizzati dalle misure di distanziamento.
Nel breve periodo il rimbalzo positivo dell’occupazione è atteso soprattutto dalla ripresa dei contratti a termine e stagionali, sulla scorta di quanto è già avvenuto a cavallo del secondo e terzo trimestre del 2020 con la riapertura delle attività dei servizi collettivi dopo il primo lockdown. Le aziende manifatturiere, e una buona parte di quelle dei servizi dedicati all’energia, alle telecomunicazioni e alla logistica, sono già tornate sui livelli di produzione precedenti la crisi. Un risultato analogo si è registrato per l’andamento della produzione industriale e del valore delle esportazioni. Condizioni che rendono possibile una gestione ragionevole e sostenibile per la fuoriuscita dal blocco dei licenziamenti e della riduzione dei sostegni al reddito nel corso del 2021.
L’elenco dei fattori positivi è importante, ma non sufficiente per pronosticare un rapido ritorno ai livelli precedenti la pandemia. Giova ricordare che il tasso di occupazione del 2019, di poco sopra al 59% delle persone in età di lavoro, si discosta in negativo di 10 punti rispetto della media dei Paesi europei. Un livello del tutto inadeguato a sostenere una ripresa di medio lungo periodo e gli equilibri della spesa sociale condizionati dall’invecchiamento crescente della popolazione.
Sul lato della domanda di lavoro si prefigurano cambiamenti importanti nel sistema delle imprese, per l’impatto delle tecnologie digitali sulle organizzazioni del lavoro e nei rapporti con i consumatori. Questo avverrà soprattutto nei comparti dei servizi che sono stati trainanti per la ripresa dell’occupazione nella seconda parte dell’ultimo decennio in condizioni di bassa produttività e di rilevanti quote di lavoro sommerso. Gli ambiti delle attività che, unitamente a quelle dei lavoratori autonomi e dei professionisti che hanno registrato un perdita di 2.350 mila partite Iva nello scorso anno, vengono considerati nelle indagini dell’Istat, e di altri istituti di ricerca, come quelli dove si addensa la presenza di imprese a forte rischio di chiusura. Sul versante dell’offerta di lavoro le indagini del ministero del Lavoro – Excelsior Unioncamere segnalano da tempo un fabbisogno di incremento delle competenze digitali e delle capacità relazionali dei lavoratori per almeno il 60% dei profili richiesti dalle imprese e la persistenza di un gap elevato tra questi e le disponibilità effettive riscontrate nelle persone che cercano lavoro. Tendenze destinate a caratterizzare in negativo anche le transizioni lavorative e la sostenibilità della mobilità dei lavoratori.
Le condizioni del nostro mercato del lavoro non sono propriamente le più ideali per affrontare la rivoluzione digitale: una popolazione attiva con un’età media superiore ai 50 anni, due terzi dei lavoratori con percorsi formativi non superiori alla scuola media e occupati in grande prevalenza in mansioni poco qualificate, un numero di giovani laureati inferiore di 10 punti percentuali rispetto la media dei Paesi Ue-27, oltre due milioni di giovani che non studiano e non lavoro, una permanente difficoltà delle imprese nel reperire i profili richiesti per motivi che oscillano dalla scarsa attinenza dei percorsi formativi all’indisponibilità a svolgere mansioni che comportano disagi lavorativi in termini di orario e fatica. Significativo il fatto che i due terzi del milione di posti recuperati nel corso dell’ultimo decennio riguardi i lavoratori immigrati e che oltre la metà degli occupati stranieri regolarmente residenti svolga la propria attività in settori caratterizzati da lavori a termine, stagionale e da ampie quote di lavoro sommerso. Nella comparazione con gli altri Paesi europei tutti gli indicatori precedentemente ricordati sono peggiorati nell’ultimo decennio.
Ci stiamo attrezzando per affrontare queste criticità? Purtroppo la risposta non può essere che negativa. Affrontarle significa mobilitare le istituzioni formative, le imprese, le parti sociali, i servizi di intermediazione tra la domanda e offerta di lavoro, per ripensare in modo integrato i modelli di orientamento al lavoro e offrire supporti permanenti a milioni di lavoratori e di disoccupati che a vario titolo saranno coinvolti nei processi descritti. Mentre all’opposto i propositi rimangono quelli di estendere la platea dei beneficiari dei sostegni al reddito, di riversare enormi quantità di incentivi per le assunzioni di giovani, donne, disoccupati, beneficiari di redditi di cittadinanza o di emergenza, di sopperire alle carenze strutturali con supplementi di normative vincolanti per datori di lavoro, arrivando persino a teorizzare l’imposizione di quote per le assunzioni di giovani, donne, disoccupati. Il tutto condito dall’evocazione parolaia sulla importanza delle politiche attive del lavoro, che si riduce nella pretesa di risolvere i problemi aumentando in modo improvvisato il personale dei servizi pubblici dell’impiego.
A suo modo la storia dei navigator improvvisati, assunti per trovare un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e non inferiore agli 850 euro mensili, e con il diritto di rifiutare ogni proposta di lavoro difforme da questo standard da parte dei beneficiari del reddito di cittadinanza, rappresenta la parodia del modo di intendere il significato delle politiche attive del lavoro in Italia. Dovendo ripartire da questa condizione è davvero difficile essere ottimisti.
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