La settimana si è aperta all’insegna del debito cattivo. Si chiude, speriamo, con un’iniezione di debito buono. Il debito cattivo è senz’altro quello accumulato dai 12 club che hanno tentato di promuovere la Superlega di calcio, suscitando una reazione rabbiosa (forse troppo) di fronte a un problema reale: o il calcio trova un modo per aumentare in maniera sensibile i ricavi riconoscendo ai club che hanno un mercato globale (è l’Asia la nuova frontiera dei fatturati) oppure dovrà accettare una stretta alle spese che colpirà forse più i “poveri”, cioè le società che trattano i cartellini dei giocatori, che non i “ricchi”, quelli che hanno comunque un appeal planetario.
Fallita in maniera miseranda la “rivoluzione”, resta il problema: può un sistema andare avanti se viene alimentato esclusivamente dal debito “cattivo”, ovvero quello che non comporta entrate future in grado di ripagare le spese di oggi?
La domanda è d’attualità nel momento in cui Mario Draghi presenta il Recovery plan italiano, il più ambizioso nell’ambito dell’Unione europea: 221,5 miliardi, ovvero i 191,5 in arrivo dai fondi europei più 30 del fondo complementare nazionale. Debito “buono” perché, secondo le stime del ministero dell’Economia, comporteranno un rilevante aumento del Pil che, nel 2026, potrebbe essere superiore del 3% proprio grazie al piano, aiutando a ribaltare il quadro di crescita zero che ci affligge da due decenni. Non solo riparare i danni economici e sociali provocati dalla pandemia, ma riportare il Paese alla crescita del Pil, necessaria per ripagare l’enorme debito pubblico che stiamo accumulando per fronteggiare l’emergenza, ma anche una tendenza venefica, che ci ha assuefatto all’ineluttabilità di una situazione così compromessa da apparire insolubile.
Al proposito, l’agenzia di rating Fitch si è esercitata sul tempo necessario a far rientrare il nostro rapporto debito/Pil almeno ai pur elevati livelli ante pandemici. Nello scenario ottimistico, accadrà nel 2030 con saldo primario in pareggio e crescita annua nominale del 4%. Con una crescita annua dell’1% e un avanzo primario del 2%, il ritorno al pre-pandemia avverrebbe nel 2086. Solo con crescita nominale al 3% e avanzo primario sarà possibile piegare la curva del debito in modo significativo.
Da questi calcoli emerge che il futuro dei “cantieri” previsti dal piano Draghi (Pubblica amministrazione, giustizia, fisco, semplificazione normativa e concorrenza) e delle sei “missioni” loro affidate (digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura; “rivoluzione” verde; infrastrutture per la mobilità sostenibile, istruzione e inclusione) ruota attorno alla capacità di aggredire il debito. Non con uno sforzo una tantum, ma con una vera determinazione che faccia giustizia dell’ipocrisia, sentimento di cui si è fatto largamente uso, per esempio, nelle polemiche calcistiche.
Certo, col Recovery fund e la realizzazione degli investimenti a esso connessi avremo un recupero “meccanico” di crescita e gettito. Ma se tali investimenti non riusciranno a determinare un innalzamento del sentiero di crescita potenziale e realizzata, avremo posto l’ennesima, forse esiziale ipoteca sul Paese già colpito dalla maledizione di una demografia negativa. È importante che l’iniezione di capitali nell’economia non favorisca la convinzione che si potrà andare avanti a lungo principalmente con apporti esterni: il debito non è diventato una variabile indipendente nella vita di una comunità nazionale, bensì un onere che prima o poi viene a scadere.
Il confine tra debito buono e cattivo è sottile. E di Draghi, ahimè, per ora ne abbiamo uno solo.
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