Fra lo scontro Ue-Conte 1, nella primavera di due anni fa, e quello Ue-Draghi, consumatosi sabato, vi è anzitutto una differenza capitale: l’esito. Sfavorevole, nel primo caso, all’Italia e a Matteo Salvini (vicepremier divenuto leader del primo partito italiano dopo l’eurovoto del 2019). Favorevole, nelle ultime ore, all’Italia di Mario Draghi, premier indipendente di un governo di unità nazionale. Ma non sembra superfluo accostare i due passaggi: anche nelle loro analogie.
Tre giorni dopo le ultime elezioni europee, la Commissione guidata da Jean-Claude Juncker (un lussemburghese tedesco-dipendente) aprì contro Roma una procedura per mancato rispetto dei parametri di Maastricht sul fronte del debito. Un passo senza precedenti (altri Paesi membri avevano violato in passato le regole economico-finanziarie senza subire alcuna procedura) e con un tempismo politico più che sospetto. Bruxelles si mosse infatti a valle di un voto perdente per tutti i grandi partiti Ue (Pse, Ppe, liberali) mentre in Italia si era imposta nettamente la Lega: enormemente più temuta e sgradita, presso i tecnocrati Ue e le cancellerie del Nord Europa, dello stesso partner di maggioranza M5s.
L’esito sostanziale di quella “dichiarazione di guerra” all’Italia si ebbe nell’arco di poche settimane. Nell’ultimo fine settimana di giugno la “capitana Carola” (figlia di un ufficiale della Kriegsmarine) condusse sulla nave di una Ong olandese un attacco militare frontale e mirato contro il vicepremier italiano, che aveva ordinato il blocco del porto di Lampedusa. Nelle ore successive il premier Giuseppe Conte fu dal canto suo decisivo nel sostenere la faticosissima designazione di Ursula von der Leyen come nuova presidente della Commissione. Ancora due mesi scarsi e von der Leyen ottenne una risicata fiducia all’europarlamento con i voti cruciali di M5s, mentre in Italia fu subito tempo di ribaltone di governo. L’espulsione della Lega e il rientro del Pd avvennero sotto la regia di Romano Prodi, ex presidente della Commissione Ue, politico cristiano-democratico da sempre legato al cancelliere tedesco Angela Merkel. Un anno e mezzo dopo, tuttavia, il “governo Orsola” battezzato da Prodi si è disintegrato: anche per le evidenti incapacità ad affrontare l’emergenza Covid sul piano sanitario, economico e geopolitico. Una “unfitness” condivisa peraltro con l’eurocrazia pilotata da von der Leyen.
Sabato la tecnocrazia Ue – in fortissima crisi di fiducia e popolarità – ha tentato quanto meno di tenere la posizione su un terreno prediletto: quello della vigilanza ragionieristica sui conti. Un tavolo al quale invece l’Italia siede tradizionalmente da “esaminando” debole: a maggior ragione oggi che il rapporto debito/Pil ha raggiunto quota 160%, oltre ogni linea rossa. Stavolta, tuttavia, la “variante italiana” impersonata dall’ex presidente della Bce, si è imposta su quella tedesca (una variante in senso letterale: nel 2019 von der Leyen è subentrata come terza scelta al candidato tedesco del Ppe, Manfred Weber e quindi al “piano B” della Merkel, il socialista olandese Frans Timmermans). Come due anni fa, tuttavia, la componente politica delle resistenze “tecniche” finali di Bruxelles alla bozza di Pnrr italiano è parsa evidente e robusta. Con una prospettiva più ampia ed evoluta rispetto alla classica azione strumentale dell’eurocrazia germanocentrica contro i Paesi deboli del Sud e dell’Est dell’Unione.
La “variante tedesca” spuntata nel 2019 sta diventando compiutamente “pandemica” in queste settimane, in Germania e in Europa. Mancano cinque mesi alle elezioni tedesche che segneranno la fine dell’era Merkel: e la Cdu di Angela (e di Ursula) è ai suoi minimi storici nei sondaggi. C’è il rischio serio che il lungo “regno” della cancelliera a cavallo della grande coalizione con la Spd si concluda con il passaggio diretto di Cdu-Csu all’opposizione. La debolezza di von der Leyen (ex ministro Cdu) è figlia anche di questa situazione politica e si somma a quella portata dal disastro Covid alle istituzioni Ue e al declino dell’europeismo sotto le diverse spinte sovraniste. Nel frattempo in Francia, lo stesso presidente Emmanuel Macron è virtualmente in campagna elettorale: ma il presidente che nel 2017 fu votato al primo turno solo dal 23% degli elettori, non sa ancora contro chi si dovrà misurare, oltre che con Marine Le Pen. In testa ai sondaggi “lontani”: oggi come cinque anni fa.
La “variante italiana” comparsa nel 2021, intanto, non è più quella incarnata due anni fa essenzialmente dalla Lega (la “bolla” grillina è sempre stata giudicata innocua e transeunte e si è rivelata alla fine funzionale ai consolidati equilibri tecno-nordeuropei fra Strasburgo e Bruxelles). La “variante” da due mesi al lavoro a Palazzo Chigi è il numero uno della Bce che nel 2012 ha salvato l’euro dicendo “whatever it takes”. È il banchiere centrale che ha concepito e realizzato il “quantitative easing” dell’euro sempre col voto contrario della Bundesbank. È il leader dell’Ue post-Brexit più conosciuto e apprezzato negli Usa (anzitutto dal presidente Biden).
Fra sei mesi Draghi ospiterà a Roma – come presidente di turno del G20 – tutti i leader mondiali: pochi giorni dopo il voto tedesco, cioè all’inizio vero di una fase nuova per l’Unione. Non è improbabile che fino ad allora e anche oltre il premier debba affrontare altro “mobbing”: da Bruxelles, Berlino o dall’interno dello schieramento politico nazionale. Sul filo di un paradosso. In Italia non sono pochi quelli che paventano la promozione di Draghi al Quirinale all’inizio del 2022. In Europa sono invece molti di più quelli che temono che rimanga premier – e quindi uomo forte del Consiglio Ue – fino alle elezioni italiane del 2023.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI