Genocidio. Genocidio degli Armeni. Per la prima volta un presidente degli Stati Uniti d’America, sabato scorso, ha pronunciato questa parola, genocidio, che fa imbestialire i capi della Turchia, nata e autoproclamatasi erede di quell’Impero Ottomano che ha programmato e realizzato l’eliminazione di almeno un milione e mezzo di Armeni, già dall’inizio del secolo scorso e poi in concomitanza con la prima guerra mondiale.
Fra deportazioni e massacri, furono fatti morire i due terzi di quella gente. Gli altri depredati dei beni o delle donne giovani deportate negli harem.
Il pronunciamento di Biden ha un valore notevolissimo. Siamo da tempo abituati ad aborrire Hitler e Stalin (il primo da subito e molto agevolmente, il secondo dopo aver superato non poche resistenze): i due sono stati indubbiamente i più grandi delinquenti della storia del Novecento, copiandosi a vicenda nella pratica dei lager e dello sterminio, alleandosi e finalmente scontrandosi nella resa dei conti finale.
La loro opera di sterminio fu perseguita in base a criteri del tutto o prevalentemente etnici e religiosi. In questa atroce specialità, furono tristemente campionissimi ma non ne furono gli inventori: la madre di tutti i genocidi del Novecento è la strage degli Armeni. Condannata per quasi un secolo all’oblio – non da parte dei Papi, sino a Giovanni Paolo II e a Francesco – da convergenti interessi turchi e occidentali, cementati poi nel secondo dopoguerra dalla comune appartenenza alla Nato, e resi delicatissimi dalla geopolitica che fa di quel Paese un crocevia di estrema importanza nelle relazioni tra Stati Uniti/Europa, Russia e Medio Oriente. Strage non a caso assente, o ridotta a poche righe, nei manuali di storia. Come se la cosa non ci riguardasse. Invece ci riguarda.
Intanto: può essere benissimo che l’uscita di Biden non sia dovuta a puro amore per la verità storica ma abbia a che fare con un gioco di rapporti di forza. Gli interessi in ballo sono enormi. Resta il fatto che chiamare le cose con il loro nome è un contributo alla verità storica e alla memoria. Ma poi il genocidio degli Armeni riguarda noi occidentali ed europei più di quanto non si voglia credere. Esso infatti fu perpetrato certamente da un progetto di dominio pan-turco da parte di una potenza esplicitamente islamica. La quale però intendeva riformare lo Stato sulla base di una concezione nazionalistica – quella disegnata dalla dottrina del presidente americano Wilson per giustificare lo smembramento dell’impero austro-ungarico e ridisegnare confini – realizzata non con trattati di pace ma in maniera brutale e violenta in termini di identità etnica e religiosa, senza rispetto per le minoranze: neanche della loro semplice esistenza.
Fu così perpetrata una “soluzione finale”, l’eliminazione di una realtà di popolo cristiano aperto all’occidente. L’incontro di questo “prototipo” con le ideologie totalitarie del Novecento europeo alimentò le “strategie” di Hitler e Stalin, un po’ diverse nei metodi pxratici, ma identiche nello scopo perseguito: l’eliminazione del diverso.
Il cuore della vicenda – da riconoscere e su cui riflettere nell’oggi – è questo: l’eliminazione del diverso per l’affermazione di un potere che tutto possa controllare. Questo tarlo del potere non è frutto di questa o quella ideologia, ma è lo scopo e il nerbo di ogni ideologia totalitaria, di ogni intolleranza del diverso.
La data del ricordo del genocidio armeno è il 24 aprile, giorno in cui, nel 1915, tutti “notabili” della comunità armena di Costantinopoli furono massacrati. Combinazione, proprio il giorno precedente il nostro anniversario della liberazione del nazifascismo. Bella occasione per uscire dai formalismi e dalle faziosità, e ricordarsi il concetto straordinariamente ben espresso in una vecchia canzone di Claudio Chieffo, “La nuova Auschwitz”: “Io suonavo il violino ad Auschwitz / Mentre uccidevano i fratelli miei… Non è possibile essere come loro”. Questo il primo contraccolpo, ma poi: “Nel mondo nuovo /che ora abbiamo creato / c’è la miseria / c’è l’odio ed il peccato… / Ora siamo tornati ad Auschwitz / dove c’è stato fatto tanto male / ma non è morto il male nel mondo / e noi tutti lo possiamo fare… / Non è difficile essere come loro”. Ecco perché la verità storica, e la memoria, hanno a che fare ultimamente con la verità e la libertà della vita nel presente.
Un nota bene. Anche la storiografia e la politica possono aiutare o deprimere questa coscienza. Lo Stato di Israele, il popolo che ha subito il più devastante Olocausto, non è fra la trentina di Paesi che hanno riconosciuto come genocidio quello degli Armeni. Motivi politici, certamente. Ma anche la volontà di affermare l’“unicità” della loro tragedia. Comprensibilissimo ma, lo dico con tutto il rispetto, non condivisibile: si finisce per obliterare, seppur involontariamente, altre tragedie e si alimenta, seppur involontariamente, l’idea di un “male assoluto” identificato solo con una determinata ideologia o regime. “Ma non è morto il male del mondo e noi tutti…”. Se lo Stato di Israele seguisse le voci di intellettuali ebrei favorevoli al riconoscimento, e l’esempio di Biden, sarebbe un gran bell’apporto alla coscienza collettiva. Per la stessa ragione la canzone “La nuova Auschwitz” di Chieffo è più vera della “Auschwitz”, pur profonda e bellissima, del grande Guccini e dei mitici Nomadi.
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