Un articolo sulla ripartenza della scuola, apparso giorni fa sul Sussidiario, mi ha colpito soprattutto per il titolo: Non automi o ripetitori, ma persone: rimettiamo il “carattere” al centrocharacter skills di James Heckman.
La frase di Leonardo recita: “Chi tiene la pagina davanti agli occhi in modo da vedere solo quella, non può più vedere la natura e intenderne le leggi” per cui finisce con l’essere uno dei tanti “recitatori e trombetti delle altrui opere”.
Il senso di questa affermazione, dal punto di vista di chi fa scuola, è evidente. Leonardo ironizza su studenti e docenti che si fermano alla superficie dell’oggetto di apprendimento senza mettersi in gioco, senza spalancare la ragione e senza assecondare l’affezione, per cui non vedono la “natura” e le sue “leggi”. Sopravvivono nelle aule di pietra e/o in quelle virtuali come “recitatori e trombetti”, senza gustare (provare) la conoscenza generativa.
Un esempio lampante è che praticano e vivono la valutazione, che genera apprendimenti e conoscenza, snaturandola con forme aberranti di controllo, da una parte, e con modalità di furbizia impensabili, dall’altra, vedi bende e affini di questo ultimo periodo.
Un altro esempio è la qualità dello studio della maggior parte degli alunni, che senza stupore, senza domanda, senza ricerca dei nessi, senza motivazioni intrinseche, senza metodo, restano in-competenti, cioè privi di competenze, e quindi senza carattere, che come documenta Heckman, è in stretto rapporto con le competenze, soprattutto non cognitive.
Già prima, Gardner e Goleman, protagonisti del dibattito su questa questione alla fine del Novecento, distinguevano le competenze in cognitive e socio-emotive, senza contrapporle. Gardner parlava di competenza cognitiva, che comporta sia un insieme di abilità per la soluzione di problemi e la gestione di difficoltà, sia la capacità di trovare o creare problemi. Goleman riconosceva nel “lavoro” dell’intelligenza emotiva una competenza personale e una sociale. La prima richiede come indicatori la consapevolezza e l’autocontrollo delle proprie emozioni. La seconda determina il modo con cui gestiamo le relazioni con gli altri e comprende l’empatia ed altre virtù sociali o soft skills.
Heckman, premio Nobel per l’economia del 2000, mette a tema i “character skills”, criticando l’uso squilibrato dei test di apprendimento standardizzati, che nella scuola americana pretendono di misurare la cultura generale con strumenti quantitativi, in particolare con misurazioni del QI. Sono le prove “carte e matita” comparse nella metà del XIX secolo che nuocciono al capitale umano, ovvero a quell’“insieme di conoscenze, abilità, competenze e altri attributi degli individui che facilitano la creazione di benessere personale, sociale ed economico” (Ocse 2001).
Che fare? La proposta di Heckman è chiara. Si tratta di promuovere percorsi, ben illustrati e motivati dal nuovo volume Viaggio nelle character skills. Persone, relazioni, valori curato da Giorgio Chiosso, Annamaria Poggi e Giorgio Vittadini, finalizzati a far acquisire, sviluppare e valutare sia le competenze socio-emotive sia quelle cognitive, che sono aspetti dei “character skills” o tratti di personalità, cioè “schemi concettuali, emozionali e comportamentali relativamente durevoli, che riflettono la tendenza a rispondere in modo particolare in particolari circostanze”. Le soft skills sono plasmabili lungo tutto l’arco della vita con maggiore o minore facilità a seconda dell’età, come documenta la psicologia della personalità da più di un secolo. Sono fattori di apprendimenti significativi, dinamici, interconnessi, espressivi della personalità, valutati attraverso i test di autovalutazione e l’osservazione partecipata.
Concretamente il contributo dello studioso del capitale umano nei confronti di una scuola “nuova” può essere riassunto in tre quadri.
Il primo, utilizzabile come strumento per la progettazione e la valutazione dei percorsi formativi, è la tassonomia dei Big Five, ovvero dei cinque grandi fattori, compendiati anche nell’acronimo Ocean, che sta per: apertura all’esperienza (Openness to Experience), coscienziosità (Coscientiousness), estroversione (Extraversion), amicalità (Agreeableness) e stabilità emotiva (Neuroticism).
I Big Five con i loro insiemi e sottoinsiemi non sono un elenco di qualità senza nesso tra di loro. Sono invece manifestazioni particolari del character e che in italiano potremmo tradurre come “carattere, indole, personaggio”. Ma al di là del vocabolario che cosa è il carattere nella tradizione pedagogica occidentale?
È “l’insieme delle disposizioni congenite e di quelle stabilmente acquisite che definiscono l’individuo nella sua completa attitudinalità psichica che lo rendono tipico nel modo di pensare e di agire” (Roberto Diana). In questa definizione ritroviamo gli elementi significativi presenti nel concetto di character come insieme di disposizioni e tendenze individuali nel pensare, nell’agire, nel relazionarsi con se stesso, gli altri, le cose.
Un secondo strumento utile per una scuola che intende rimettere al “centro il carattere” è il profilo di uscita dello studente descrivibile con i Big Five alla mano. Potremmo, per esempio, dichiarare competente non chi tende a riprodurre, ma chi con “grinta” (estroversione) affronta le situazioni e dimostra di “intendersene”. Competente non è semplicemente “l’esperto”, ma un esperto aperto (direbbe Schank, studioso di intelligenza artificiale). È una persona che, per affrontare un compito o risolvere un problema, si muove con tutto se stesso, con coscienziosità, attivando la parte intellettuale e quella emotiva, insieme ad altri (in modo “amicale”), in un orizzonte unitario sempre più ampio (apertura mentale). Competente è dunque lo studente che, mobilitando e indirizzando le sue energie (capacità, conoscenze e abilità), procede documentando conoscenze reali, per cui è capace, per esempio, sia di parlare di argomenti in modo appropriato, sia di offrire prestazioni pertinenti, coerenti e nello stesso tempo imprevedibili, non standardizzate, in quella “materia”, in quella situazione.
Un ultimo percorso, nella prospettiva di Heckman in dialogo con la nostra tradizione, è l’esplicitazione del legame tra soft skills e virtù. Lo ricorda Cristiano Ciappei, docente all’Università di Firenze, quando riconosce che “… si potrebbe dire che le soft skills sono virtù a cui è stato tolto il collegamento al bene. […] In termini più positivi (le soft skills) rappresentano il tentativo di rivitalizzare un tema con un nuovo nome”.
È sufficiente una “raffigurazione un po’ divulgativa, un po’ post-modernizzata e molto anestetizzata delle virtù” per riguadagnare quello che storicamente ci appartiene? Dipende se e come si vuole perseguire la scuola, che è far crescere la persona, ma il discorso qui diventerebbe troppo lungo.
Per il momento annotiamo che l’interesse verso i character skills nasce e si alimenta dalla “riscoperta del ruolo centrale dell’umano e del suo agire che recupera spazio rispetto ai sistemi e al loro funzionamento”. Averlo riscoperto in una fase pandemica del vivere sociale è un’occasione in più, un’ulteriore sottolineatura che la ripartenza della scuola è già in atto, ma non nei termini riduttivi e mendaci di chi si aspetta di riprodurre la scuola che c’era prima.
Dopo la pandemia la scuola non sarà, come qualcuno va dicendo, una macchina senza scopo. Diventerà sempre più una comunità di adulti che conosce e riconosce la valenza educativa dei “character skills” (competenze trasversali, qualità umane, virtù sociali e personali) perché già, magari implicitamente, li sta utilizzando come strumenti dell’educare istruendo.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.