Savinio incanto e mito, una affascinante mostra curata da Ester Coen al Museo Nazionale Romano di Palazzo Altemps e aperta – pandemia permettendo – fino al 3 giugno 2021, ci invita a ripensare alla figura e all’opera di Savinio, fratello minore di Giorgio de Chirico. Una novantina di opere illustrano il suo periodo artistico forse più significativo, quello vissuto a Parigi fra il 1926 e il 1934, mentre un raffinato catalogo a più voci, tra cui quella del figlio Ruggero, anche lui pittore, ci aiuta a conoscere meglio il suo mondo.
È trascorso più di un secolo da quando Apollinaire, nel giugno 1914, scriveva: “Un giovane musicista mi ha invitato ad ascoltare la sua musica. Si chiama Alberto Savinio e penso che sentiremo ancora parlare di lui”. La sua profezia si sarebbe avverata, ma di Savinio si sarebbe parlato non tanto come musicista (quale inizialmente era: i suoi primi anni di ricerca sono stati tutti dedicati alla composizione musicale), quanto come pittore, scrittore, uomo di teatro, con un talento singolarmente poliedrico.
In campo letterario ha avuto riconoscimenti generosi. Montale, per esempio, l’ha definito “uno dei migliori scrittori del nostro tempo”. In campo pittorico invece la strada è stata più difficile, anche perché i suoi quadri sono ricchi di significati, evocazioni mitiche, visioni sapienziali. Come diceva lui stesso: “La mia pittura non si può giudicare come si guarda la pittura nata direttamente dall’occhio, dalla pennellata, dal colore, dai rapporti di tono, da altre sciocchezze. Le mie pitture non finiscono dove finisce la pittura. Continuano”. E il secolo delle avanguardie, sempre sospettoso nei confronti delle forme espressive che non erano solo forme, l’ha accusato volentieri di letterarietà.
Ad aggravare la posizione di Savinio c’è stato poi il fatto che la sua pittura non può nemmeno rientrare nelle maglie larghe del surrealismo, perché non si fonda sull’affiorare dell’inconscio, ma sulla piena consapevolezza e persino sulla logica, sia pure visionaria. La sua opera, comunque, con i suoi miti e le sue visioni, nasce soprattutto dai ricordi della sua infanzia, trascorsa fra Atene e la Tessaglia. Per questo le metafore, le allusioni, le apparizioni che si disegnano nelle sue opere hanno sempre qualcosa di affabile e domestico. I suoi quadri sono un po’ come un album di fotografie di famiglia, in cui dei ed eroi si mettono in posa, con naturalezza, tra figli e genitori.
Savinio (che si chiamava in realtà Andrea de Chirico, e nel 1914 aveva scelto il nome d’arte ispirandosi al romanziere Albert Savine) era nato nel 1891 ad Atene. Il padre, il barone Evaristo, ingegnere, lavorava in quel periodo alla costruzione della rete ferroviaria greca e doveva spesso cambiare residenza per seguire i cantieri. Così il piccolo Andrea trascorre la prima infanzia ad Atene, poi segue la famiglia a Volos, in Tessaglia. Questa cittadina, ai piedi del monte Pelio, non era solo legata al mito di Achille, ma era anche il luogo da cui Giasone era partito con gli Argonauti alla ricerca del Vello d’oro. Accanto alle memorie classiche, poi, la città custodiva numerose chiese bizantine, con le loro icone dorate e i loro triangolari “occhi di Dio”. Dei e miti, statue classiche e pale d’oro, montagne abitate dai Centauri e mari cantati da Omero venivano così a sovrapporsi nella sensibilità accesa di Savinio. Sono le figure, le suggestioni, i miti che torneranno nella sua pittura, mescolati ad un senso lussureggiante della metamorfosi delle cose.
Per questo nelle sue opere i dinosauri preistorici e le statue di Atena convivono pacificamente (Ritratto di un mondo scomparso,1928). E gli uomini, che spesso sembrano monumenti di pietra e calcare, altrettanto spesso si tramutano in ibridi impossibili. Sul loro corpo muscoloso e barocco spunta una testa con il collo da giraffa, il lungo becco da pellicano, il piumaggio di un rapace o di un gallo.
Anche gli oggetti, comunque, subiscono un processo di straniamento. I giocattoli escono dalla cameretta dei bambini e si perdono nei boschi. Oppure sono i boschi che fanno irruzione nelle stanze. Quello di Savinio, insomma, è un universo ilare e disperato, una illimitata grotta di Aladino, dal cui fondo trapela a tratti il presentimento del nulla e dell’assurdo. E insieme è un mondo carico di reminiscenze, di citazioni colte, che però conserva sempre l’incanto fanciullesco della fiaba.
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