L’incontro dicono che fu folgorante, secondo alcune ricostruzioni dovuto anche a un piccolo intervento divino. Certo è che la coppia Di Maio-Parisi ha dato vita a una spettacolare parabola di idee e proposte che avrebbero dovuto cambiare la storia della povertà in Italia. Come si sa, il programma definito dall’allora ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico e dal professore pugliese emigrato all’Università del Mississippi ci ha permesso di vedere l’abolizione della povertà, grazie all’introduzione del reddito di cittadinanza.
Poi, nominato il professore a presidente dell’Agenzia nazionale per le politiche del lavoro, abbiamo visto abbinare al reddito di cittadinanza un’innovativa politica attiva del lavoro: l’assunzione di qualche migliaio di “navigator” che avrebbero dovuto contattare quanti ricevevano il suddetto reddito e, attraverso una piattaforma e una app sviluppate in Mississippi, trovare un incrocio fra domanda e offerta di lavoro per avviare a un’occupazione definitiva le persone prese in carico dai servizi al lavoro.
Piattaforma, app e incrocio domanda e offerta non si sono mai visti. Restano i tanti che ricevono il reddito di cittadinanza e che, come risulta proprio dal lavoro dei navigator, sono spesso persone non collocabili al lavoro. Risultato noto a tutti quelli che avevano studiato la povertà nel nostro Paese. Quella che doveva essere la scoperta del secolo, abbinare politica del lavoro a misure di contrasto alla povertà, si è dimostrata un fallimento.
Solo oggi si è però arrivati a mettere alla porta il professor Parisi e a nominare un commissario per mettere ordine all’Anpal. Passaggio essenziale ma non ancora risolutivo per poter affrontare le sfide del mercato del lavoro che si presenteranno con la conclusione della fase di blocco dei licenziamenti e la ripresa delle attività economiche.
Questo anche perché in questi anni tragici, in attesa che potesse realizzarsi il famoso progetto immaginato a suo tempo, l’Anpal, che avrebbe dovuto sviluppare politiche attive per contrastare gli effetti della pandemia sui lavoratori, non ha avanzato né progetti, né proposte. Ha giusto assicurato, ai livelli minimi perché maggior ruolo è stato giocato dalle Regioni, la riproposizione del programma Garanzia giovani e la gestione della nuova proposta del fondo per l’adeguamento delle competenze.
Il potenziamento della rete dei Centri per l’impiego e la sperimentazione di programmi per sostenere attivamente quanti sono stati espulsi dal mercato del lavoro, in questo duro periodo, hanno visto la completa assenza dell’agenzia che avrebbe dovuto elaborare e proporre nuove iniziative di politiche attive contro la disoccupazione.
Il segnale che viene dalla scelta di commissariare gli enti rappresenta la fine di un programma di scelte sbagliate. Il tema di quali politiche attive si intendono realizzare resta tutto da affrontare e occorre anche cercare di recuperare il tempo perso.
Il silenzio programmatico con cui il ministro del Lavoro ha accompagnato anche questa scelta giusta ci lascia alquanto perplessi. Dai comunicati si coglie che il commissariamento serve per azzerare i problemi legati ai vertici e rimetter ordine nell’amministrazione (tralasciamo di entrare nel merito delle accuse sulle spese facili e delle altre polemiche sui bilanci della gestione Parisi). Si dovrebbe poi procedere a una riorganizzazione che vedrebbe tornare in una direzione del ministero le scelte sulle politiche e un’agenzia, con una governance affidata a un direttore, con compiti attuativi.
Se questa dovesse essere la soluzione definitiva dovremmo aggiungere alle colpe già note della coppia Di Maio-Parisi anche quella di fare tornare la discussione sulle politiche attive alla preistoria. Avendo creato un disastro si rischia ora di buttare il bambino con l’acqua sporca. Il nostro Paese non ha strutture pubbliche in grado di gestire politiche che si prendano in carico un disoccupato, assicurino sostegno al reddito e lo accompagnino attraverso servizi di orientamento e formazione a trovare una nuova occupazione. I nostri Centri per l’impiego sono stati programmati e gestiti per assicurare solo i servizi amministrativi che accompagnano le fasi di transizione del lavoro.
La struttura abbozzata con il sistema Anpal, seppur con molte pecche, avrebbe dovuto essere l’inizio della creazione di una rete di servizi capaci di compiere il salto di qualità necessario per dotare il nostro mercato del lavoro degli strumenti più adeguati. Per essere una vera agenzia per il lavoro, sul modello di quelle esistenti in tutti i Paesi europei, manca della disponibilità di gestire tutte le risorse, sia quelle per le politiche passive di sostegno al reddito, sia quelle attive per finanziare i servizi necessari.
Tornare però alla direzione ministeriale, con solo una agenzia tecnica di supporto, riporta indietro la possibilità di affrontare la grande fase di adeguamento delle competenze di massa e di ricollocazione per oltre un milione di lavoratori con la creazione di un’infrastruttura di servizi per il lavoro capaci di farsi carico dei bisogni di mobilità che il mercato sempre più esprime.
La possibilità di compiere un salto di qualità direttamente dentro alla fase di crescita che sarà indotta dalla disponibilità dei fondi europei richiede una forte collaborazione fra la rete dei servizi pubblici e quella delle agenzie private per il lavoro.
Serve per questo un’agenzia pubblica capace di gestire una governance complessa. Per poterla immaginare bisogna liberarsi dall’idea che pubblico significhi statale e che il ministero sia la sede dove elaborare i servizi del futuro.
Per fare dimenticare gli errori di questo periodo occorre il coraggio di un grande balzo in avanti e non le finte sicurezze del ritorno allo statalismo.
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