Lo spauracchio dell’inflazione non ferma il motore della ripresa, cioè l’America. L’aumento dei prezzi ad aprile non ha fatto precipitare la Borsa o innescato la corsa alle obbligazioni: almeno per ora le scelte espansive della presidenza Biden sono salve.
La leva dei prezzi, per la verità, è salita più del previsto, complici alcuni “colli di bottiglia”: la penuria di chips, ad esempio, ha frenato la produzione di nuove auto con la conseguenza di far schizzare in alto i prezzi dell’usato, altra conferma che l’economia a stelle e strisce è in forte ripresa. Complici i generosi sussidi alle famiglie, l’occupazione stenta a ripartire: i salari troppo bassi non attraggono una forza lavoro che può contare sui 300 dollari a settimana in arrivo da Washington.
Di qui la previsione di un aumento del costo del lavoro che promette di incidere sul futuro della gig-economy: le prime sentenze a favore degli autisti di Uber, riconosciuti dipendenti a tutti gli effetti segnano un cambio di rotta storico. In cambio, il sindacato stenta a rimetter piede nell’industria dell’auto e resta fuori da Amazon.
A sostenere la linea paziente dalla Fed, decisa a far di tutto pur non inceppare il motore della ripresa con aumenti prematuri del costo del denaro, c’è la forte liquidità in circolo nel sistema: il rendimento dei Treasury Bond è ancora sotto controllo, come hanno dimostrato le recenti aste in cui il mercato ha assorbito offerte robuste (41 miliardi di dollari la sola asta dei decennali) senza che fosse necessario far scattare gli acquisti dei primary dealers (le banche autorizzate a intervenire per pilotare i prezzi). E così, pur con qualche patema d’animo, tiene la linea espansiva del Tesoro americano, deciso a sostenere e a proteggere la tendenza alla crescita, alimentata dalla domanda a sua volta stimolata dalla ripresa graduale dei prezzi.
È un’ottima notizia per l’Italia, flagellata da una ventina d’anni dal ciclo inverso, con una prevalenza dell’offerta sulla domanda, caratterizzato dalla necessità di adeguare al ribasso le aspettative dell’economia, a partire dal calo degli investimenti, sia pubblici che privati, il tallone d’Achille che ha accompagnato gli anni del declino: se il Pil procapite italiano è più basso di trent’anni fa, la Borsa sugli stessi livelli e i prezzi delle case (salvo che a Milano e altre poche eccezioni) sono rimasti immobili le ragioni sono tante, ma la caduta degli investimenti è certamente una delle più importanti.
Ora il nuovo ciclo globale della domanda crea le condizioni per la ripresa. L’Unione europea stima nel 4,2% il tasso di crescita del Bel Paese nella seconda parte dell’anno, in attesa che i primi fondi del Recovery fund possano spingere l’asticella ancora più in alto l’anno prossimo al 4,4%. Numeri importanti per un Paese abituato a tassi di crescita da vecchio prefisso telefonico. Ma è ancor più rilevante notare che la spinta dei capitali trova un terreno fertile, frutto del lavoro in anni particolarmente difficili, il nostro sistema industriale si è riorganizzato in maniera profonda, con un forte salto di qualità.
Certo, la crisi ha picchiato duro: sono stati perduti per sempre alcuni campioni nazionali (pensiamo all’industria del bianco), così come molte piccole imprese a basso contenuto di tecnologia. Le banche hanno spesso adempiuto alla funzione di infermeria (se non di obitorio) dopo aver patito a loro volta il peso di sofferenze insostenibili. Ma alla fine l’Italia, ancora seconda manifattura d’Europa dietro la Germania, si presenta all’appuntamento solida e vivace sotto le insegne del “quarto capitalismo”, espressione di un sistema fortemente votato all’export, pronto ad allargare la sua sfera d’azione. “Abbiamo continuato a vendere il riso alla Germania e il vino all’Olanda – si legge nella ricerca di Banca Intesa e Prometeia -, ma anche le scarpe alla Corea del Sud e la plastica alla Cina. Costruiremo la ripresa con l’alimentare e le costruzioni, proveremo a renderla più forte con l’elettronica e i robot”.
Una parte del sistema industriale si è agganciata saldamente alla Germania e si accinge a cavalcare sotto la guida teutonica la grande sfida dell’auto elettrica così come l’ex Fca (con grande fatica) si è agganciata al carro di Peugeot. Ma altri competono in prima linea sui mercati in settori magari di nicchia, ma ad alto valore aggiunto. Se l’Italia nel 2020 ha fatto registrare nonostante il crollo del turismo un avanzo delle partite correnti del 3,4% (mentre la Francia ha aggravato il suo disavanzo portandolo al 2%) non è solo per la caduta dei consumi (e quindi delle importazioni), ma anche perché le imprese italiane sono riuscite ad agganciare molto bene la ripresa cinese e americana. Grazie all’export, che ha tenuto meglio di Germania e Francia (-8,8% contro rispettivamente -9,1% e -6%). E così il danno, pur pesantissimo della crisi da Covid-19 (una perdita di fatturato nell’ordine di 90 miliardi di euro pari al 9,3%), si è rivelato inferiore alle previsioni e, soprattutto, meno grave degli effetti patiti durante la recessione del 2009.
A che si deve questo risultato? Il dato nuovo, nota Intesa/Prometeia, “è stato il rafforzamento della cosiddetta competitività” avvenuto nel decennio 2010-2019. Sta cambiando verso l’alto il posizionamento dell’Italia sui mercati grazie alla specializzazione in settori a medio-alto contenuto tecnologico, frutto di un lavoro intenso di cui si è parlato poco a fronte delle tante chiacchiere sulla decrescita. Insomma, siamo meglio di come ci siamo dipinti. Ma non è il caso di esaltarci: o saremo in grado di trasferire lo stesso dinamismo dell’industria manifatturiera al resto della società italiana oppure questo tesoro andrà disperso, quando si tratterà di ripagare i prestiti del Recovery fund. O di far fronte alla stretta che prima o poi l’inflazione imporrà agli Stati Uniti. Abbiamo, insomma, qualche pallottola in più. Guai a sprecarla, però.
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