Caro direttore,
è sotto gli occhi di tutti la grave crisi che affligge il sistema giudiziario del nostro Paese. Sarebbe ingeneroso negare che molti magistrati lavorino e proseguano a svolgere la propria delicata funzione con dedizione e professionalità, spesso in condizioni difficili a causa di croniche carenze organizzative.
Sarebbe d’altra parte irrealistico sostenere che le faide interne a diversi uffici giudiziari, gli intrallazzi ed i “giochi di potere” ai vertici della magistratura di cui le cronache giornalistiche danno conto con cadenza quasi quotidiana rappresentino fatti episodici ed isolati, e non appaiano ormai agli occhi degli increduli cittadini come consolidato costume.
La nota “vicenda Palamara” ha disvelato come il gioco delle correnti all’interno della magistratura abbia condizionato per anni le funzioni dello stesso organo di autogoverno e si sia trasformato in mero strumento per l’assegnazione di incarichi ai vertici degli uffici giudiziari in assenza di qualsivoglia valutazione meritocratica del singolo candidato. Gli ampi stralci delle conversazioni telefoniche ed ambientali pubblicate sui giornali hanno dato conto di quanti dei colleghi dell’ex presidente dell’Anm (divenuti poi feroci esecratori del correntismo) ricorressero alla protezione di questi per chiedere favori e progressioni di carriera.
Di “scandalo” nel mondo della giustizia si è tornati a parlare pochi giorni fa a proposito dell’indebita consegna di verbali di interrogatorio secretati all’ex esponente del Csm Piercamillo Davigo, da parte di un pubblico ministero della Procura di Milano all’insaputa dei colleghi e del Procuratore capo della medesima Procura, e del turbinio di inchieste che ne è scaturito e che ha lambito persino l’organo di autogoverno della magistratura con perquisizioni e sequestri.
L’amplificazione mediatica che viene data alle vicende in questione non fa che aumentare lo sconcerto generale e la sfiducia dei cittadini nel sistema giustizia. Nessuno può rallegrarsene, e non coglie nel segno neppure la posizione di coloro – molti – che sul grave momento di difficoltà della magistratura coltivano il sogno della rivincita di un esasperato garantismo, spesso utilizzato in termini ideologici e non meno dannoso del suo opposto. Un Paese nel quale la giustizia non funziona – ricordava don Luigi Giussani in un’intervista resa nei primi anni novanta, nel mezzo della rivoluzione giudiziaria di Tangentopoli – è un Paese allo sbando, e tutto il popolo è smarrito.
Noi pensiamo che – al di là degli interventi riformatori pure necessari per arginare le innegabili degenerazioni interne al sistema giudiziario – l’unica risposta all’altezza della gravità del momento sia la forza della testimonianza che ci giunge dall’esempio di magistrati che hanno operato con la consapevolezza che il compito del magistrato è unicamente quello di servire, attraverso la speciale funzione che esso ricopre, il mondo in cui si abita e che solo ciò può giustificare il potere che egli ha di inquisire o giudicare un’altra persona. Impareggiabile è la testimonianza di Rosario Livatino, il “giudice ragazzino” ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990 e beatificato martire in odium fidei pochi giorni fa. “La credibilità esterna della magistratura nel suo insieme ed in ciascuno dei suoi componenti” ricordava Livatino in un memorabile discorso sul ruolo del Giudice “è un valore essenziale in una Stato democratico, oggi più di ieri. È importante che il giudice offra di sé stesso l’immagine di una persona seria, equilibrata, responsabile pure; potrebbe aggiungersi di persona competente ed umana, capace di condannare ma anche di capire. Solo se il giudice realizza in sé stesso queste condizioni, la società può accettare che egli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha”.
Il diffondersi di testimonianze come questa è ciò che può restituire alla giustizia la dignità e l’essenzialità perduta.
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