Non voleva essere chiamato Maestro, l’epiteto col quale invece, suo malgrado, verrà ricordato negli anni a venire. Ci si potrebbe chiedere se fosse un vezzo di modestia, una piccola vanità al contrario, ma a ben guardare in quella ritrosia c’è una parte essenziale della sua visione artistica e musicale. Il maestro, per professione, è colui che, raggiunta una conoscenza, condivide e dispensa sapere ad allievi, un rapporto per sua natura dispari ed ineguale, nonostante ogni sforzo di abbassare cattedre. E invece Franco Battiato, che se ne va in silenzio a 76 anni, dopo stillicidi vergognosi di illazioni e avvoltoi incravattati famelici di inediti, è stato il profeta dell’inesausta sete di conoscenza e di studio. Questo modo di vivere l’esperienza artistica è il dato più rilevante che sopravvive alla corruzione del tempo. La curiosità per i suoni, primi motori dell’esperienza vitale, l’ha interpretata come un viaggio tra linguaggi lontanissimi, alla ricerca di una possibile coniugazione comune: la tradizione popolare siciliana, l’elettronica d’avanguardia, il rock, i colori arabi e mediterranei, le possibilità ritmiche delle percussioni e le dinamiche orchestrali degli archi, gli stilemi armonici della musica romantica e le nuove onde melodiche di Brahms, Ravel e Scriabin.
In quello studio infinito ha cercato le parole migliori, scelte con la cura e la grazia d’un amante e con il canto ha illustrato quanto l’arabo e il siciliano fossero uniti e come l’inglese, il francese o il tedesco potessero trovare casa in brani musicali dove la perfezione era sorella di una fragilità evidentissima, un equilibrio perfetto e mistico dove anche una sola onda a bassa frequenza avrebbe disarticolato la struttura profonda.
Di Franco Battiato ciascuno porta ragionevolmente in cuore un ricordo personale, una canzone amata e cantata; adesso, i coccodrilli nei cassetti delle redazioni sono pronti da troppo tempo, per perdere tempo a ricordare una produzione davvero enorme e complessa da ridurre all’unità d’un articolo al vapore. Meglio, quindi, retrocedere e ascoltare, allenare l’anima all’esercizio metafisico che è il lascito maggiore dell’artista catanese. Già, perché dagli anni successivi al boom economico agli epigoni dell’edonismo targato ’80, dallo strazio delle storie di corruzione politica al dileguarsi della musica come possibilità nella musica come prodotto, Battiato ha perseguito con una caparbietà leggera e indifferente un progetto di elevazione.
Si sente in ogni beat lo stupore di solcare un nuovo sentiero, dove il suono degli strumenti e della voce diventano il medium eletto per tentare l’azzardo dell’infinito, della divinità in qualunque declinazione la si voglia intendere; perché la sua musica è certamente Sacra, priva di religioni e carica di religiosità. E così, in quelle canzoni resta il sapore di una scelta per gli uomini, alternativa ai traffici balordi per l’affermazione del hic et nunc; è la scelta che Coleridge indicò nell’introduzione della sua Ballata, riportando una epigrafe di Thomas Burnet: “Giova comunque, non ne dubito, contemplare nella mente, di tanto in tanto, come in un quadro, l’immagine di un Mondo più grande e migliore, di modo che la mente stessa, assuefatta alle piccole cose della vita quotidiana, non si immiserisca troppo e non resti tutta assorbita nei piccoli pensieri.”
Il suggerimento (non richiesto) è, adesso, quello di ascoltare solo e soltanto la musica che ha scelto di produrre e registrare, diffidare della paccottiglia commerciale postuma che verrà rifilata, perché violerebbe lo spirito stesso dell’arte di Battiato, costruita sull’attenzione e la prudenza. Buon viaggio, amato Franco.