Quando si pensa allo sviluppo della Cina e più in generale dell’East Asia si tende a pensare ancora a produzione di massa di basso livello, scopiazzature di prototipi inventati dagli occidentali, livello di formazione generalmente basso. Salvo domandarsi da dove saltino fuori telefonini che spopolano, laboratori biologici accusati di ogni nefanda manipolazione o razzi spaziali che cadono nell’oceano. Dello stato del sistema formativo si sa poco e le idee che girano ipotizzano classi pollaio che recitano in coro a memoria oppure terribili pomeriggi di studio suicidari in Corea. Donde ci si riconforta: sì, i loro Pil si stanno innalzando forse anche un po’ troppo, ma è tutto molto trash.
Un primo dubbio in proposito dovrebbe venirci dalle graduatorie delle valutazioni standardizzate internazionali come Pisa, che nell’ultimo decennio hanno visto tramontare il mito dei paesi nordici che avrebbero derivato il loro primato dal famoso biennio unitario (mito che a quanto pare è ancora in circolazione fra le file della pedagogia progressista) per registrare il decollo a razzo delle “tigri asiatiche”. I sapientoni della scuola sono pronti a ricordarci che si tratta di rispondere a quiz banali, basati appunto solo sull’addestramento. Dopo vent’anni di rilascio delle prove non resta che sperare che una buona volta si decidano a darvi un’occhiata e a cercare di rispondere (a quelle di alto livello si capisce). Forse capiranno che hanno ragione gli insegnanti quando si lamentano che sono troppo difficili, nel senso che richiedono troppa logica e troppe poche nozioni.
Ma c’è di più. Ultimamente mi è capitato di scorrere un’interessante pubblicazione della Oxford Studies in Comparative Education: International Schools: current issues and future prospects. Da cui ho scoperto che negli ultimi decenni si è verificato un loro boom soprattutto in Cina, oltre che nei paesi arabi, che han deciso di impiegare massicciamente i soldi del petrolio in formazione, in vista di un futuro fatto non solo di brillantoni.
Le International Schools sono nate per garantire un luogo di formazione ai figli di funzionari prima della Società delle nazioni e successivamente dell’Onu e della Nato. Studenti di élite, pedagogie progressive di impronta costruttivista, lingua inglese. Chi ha visto The Crown può riconoscerne uno degli archetipi nella scuola scozzese di duro training gestita da un pedagogista ebreo fuggito dalla Germania nazista, frequentata prima da Filippo di Edimburgo e poi, malgré soi, dal principe Carlo. La scuola esiste ancora ed è andata recentemente sui giornali come destinazione formativa della erede al trono di Spagna.
Dopo la seconda guerra mondiale e soprattutto negli ultimi due decenni però la musica cambia. Le Scuole internazionali hanno avuto dopo il 1947 uno sviluppo eccezionale. Nel ’49, al primo convegno Unesco ad esse dedicato, erano 15 i dirigenti delle scuole partecipanti. Dal 2000 sono cresciute del 200% per arrivare nel 2015 al numero di 8mila, con 4 milioni di studenti ed in previsione nel 2025 raggiungeranno il numero di 15mila con 8 milioni di studenti. Vi hanno accesso principalmente le élite economiche e sociali di diversi paesi del Terzo Mondo, che vi cercano una certificazione di privilegio e la possibilità di accesso alle reti internazionali di formazione superiore, anche attraverso il pieno possesso dell’inglese.
Principalmente collocate nelle metropoli internazionali di quei paesi, utilizzano personale dirigente e docente internazionale ed ospitano allievi multiculturali. Il personale è madrelingua inglese e proviene non solo dalla Gran Bretagna e dagli Usa, ma anche da Australia e Nuova Zelanda. Alcuni paesi hanno messo limiti alla loro espansione: in Cina, ad esempio, che ne registra una vera e propria esplosione tanto da essere il paese che ne ospita la maggioranza, gli autoctoni possono iscrivervisi solo se la scuola risulta a capitale cinese.
In alcuni casi queste scuole ed il loro curricolo tendono ad avere un impatto diretto sull’impostazione dei sistemi nazionali. In altri paesi più assertivi come la Cina vengono posti precisi limiti, quali vietare le iscrizioni agli autoctoni se non in scuole gestite con capitali locali. Non esiste peraltro alcuna forma di accreditamento e perciò le scuole possono liberamente fregiarsi del titolo di Internazionale senza doversi sottoporre ad alcun genere di condizioni. Il miglior modo per distinguerle è la impostazione del curricolo: solo un quarto segue quello dell’International Baccalaureat (IB) fondato nel 1968 in Ecolint, la Scuola Internazionale di Ginevra.
Si tratta dunque della proliferazione di scuole di élite che non sono alimentate dalle vecchie ideologie idealistiche ma sono essenzialmente strumentali al momento internazionale: cultura sostanzialmente occidentale, lingua inglese e legami internazionali elitari. Obiettivi la English fluency e buoni risultati nelle graduatorie high stakes.
Vi è stato molto investimento di capitali nelle nuove scuole internazionali, perché si tratta di una nicchia di mercato molto promettente, divenuta un elemento importante nel panorama internazionale dell’educazione tanto da venire definito nella pubblicazione “un segreto ben tenuto”. Nel 2015 solo l’11% apparteneva alle seguenti catene: Taalem Eesol e Gems di Dubai, Bellevue Education e Cognita dell’United Kingdom e Nord Anglia di Hong Kong. Ma negli anni successivi se ne è registrata una concentrazione crescente.
Le finalità di profitto sono ben garantite ed anche il periodo della crisi del 2008 non ha generato una diminuzione delle iscrizioni, dimostrando che le scuole internazionali crescono indipendentemente dal clima economico. Problemi in prospettiva possono venire dal fatto che queste catene mirano prioritariamente ai profitti abbassando i costi e perciò la qualità dell’offerta.
La Keystone Academy, Chinese bilingual boarding school di Pechino, nata nel 2011, rappresenta un caso di particolare interesse e forse anche di avanguardia. Si tratta di una scuola cinese-americana internazionale di cui l’aspetto principale dichiarato è quello cinese, con curricolo e lingua inglese-cinese, con un uso del cinese in diminuzione nel progredire degli anni di corso. Alla base i cinque principi confuciani: compassione, giustizia, rispetto, saggezza ed onestà. Obiettivo dichiarato rivitalizzare la conoscenza della tradizione e dell’arte cinese dopo i guasti della Rivoluzione culturale. Il curricolo è dunque cinese, con contenuti dell’International Baccalaureat ed un significativo pluralismo pedagogico. Grandi questioni pedagogiche in discussione sono ad esempio il ruolo del gioco, l’importanza dell’apprendimento a memoria, il modo per promuovere la partecipazione orale, le pratiche di charachter building. Pensiero critico, insomma, insieme però anche con la memorizzazione. Dal punto di vista organizzativo-funzionale, la scuola è partita con il finanziamento di ricchi cinesi, l’attenzione e l’accreditamento dell’Occidente, una dirigenza occidentale, un middle management cinese e, last but not least, pari condizioni per dipendenti stranieri e cinesi.
Un interessante oggetto di conoscenza e riflessione.
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