Gli Oscar non serviranno a giudicare la qualità o a comprendere un film, ma non sono del tutto inutili. Per esempio, senza il premio come miglior film a Nomadland, Mubi – la piattaforma streaming specializzata in film d’essai o indipendenti – non avrebbe deciso di distribuire il primo film della regista Chloe Zhao, Songs My Brothers Taught Me del 2015. Un film in cui, pur se acerbe, si intravedono tutte le caratteristiche del cinema della regista.
La quale comincia in questo esordio a delineare il suo amore per certi ambienti, per certi personaggi, ma anche per un modo di raccontare in cui la finzione e la realtà non si riescono a districare: il film è ambientato in una riserva indiana dei Lakota Sioux e parla di un ragazzo e del rapporto con sua sorella, un rapporto messo in discussione dalle difficoltà familiari, dall’aria di sfacelo che aleggia intorno alla riserva, dalla decisione del ragazzo di partire e lasciare tutti per vivere con la sua fidanzata.
Zhao, anche sceneggiatrice, parte dalle vere vite delle persone che conosce e vuole raccontare, dai veri ambienti in cui quelle storie si svolgono, fa un lavoro da documentarista e poi muta il segno, in modo impercettibile ma sensibile, chiedendo a quelle persone di diventare personaggi, di interpretare ruoli vicini a loro, di reinventare situazioni accadute, di entrare in un mondo che sta poco lontano dalla loro esperienza.
La scia che Zhao segue in Songs My Brothers Taught Me è quella di Roberto Minervini e della sua trilogia texana (The Passage, Low Tide, Stop the Pounding Heart), ma qui non c’è l’interesse a scavare in quei personaggi e comunità, a scoprirne i lati oscuri, semmai sembra l’opposto, quei lati vuole illuminarli, portarli a uno stato di quiete e serenità che appaghi le persone e gli spettatori. Quello che riprende Zhao è un luogo simbolo di una pace interiore che la vita cerca di complicare, non ambisce ad altezze metafisiche la regista, vuole fare un cinema piano e orizzontale come i paesaggi che avvampano nel suo sguardo.
La famiglia e la comunità, la natura, il lavoro con gli animali sono le caratteristiche di questo western del reale in cui l’uomo deve trovare una risposta alle domande a cui nessuno risponde: “Non trasformare Dio in un altro degli uomini per cui abbandoni i tuoi figli”, dice il figlio carcerato alla madre in visita. Zhao cerca di raggiungere le radici umaniste della cultura che mostra, ma lascia i suoi personaggi liberi di abitare quella cultura, di muoversi nel film per catturare la vitalità – decadente, magari marcita – di quella cultura.
Per questo, quando appaiono elementi drammaturgici più tradizionali, quando il film sembra entrare su binari più conformi perde qualcosa nel tocco, lo stile poi è giustamente meno compiuto rispetto ai due film successivi, ma Zhao già al debutto mostra una capacità notevole e toccante di rendere fisico e visivo il senso di precarietà esistenziale dei suoi personaggi, dei luoghi che abitano.
Songs My Brothers Taught Me vinse la Caméra d’or a Cannes, il premio per il miglior esordio, che gli permise poi di realizzare il bellissimo The Rider. Vedi che allora, come gli Oscar, i premi a qualcosa servono ancora?
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