La pubblicazione del Financial Stability Review (Fsr) della Bce non rappresenta un evento che catalizzi l’attenzione delle folle. Diverso l’atteggiamento degli addetti ai lavori, poiché fra le pieghe di decine di pagine di grafici, dati e analisi, può sempre fare capolino l’indicazione, lo spoiler di ciò che verrà a livello di politica monetaria. Ma che ancora non si può comunicare ufficialmente.
In tal senso, l’ultima edizione offre sostanzialmente due indicazioni. Primo, l’Eurotower ha scoperto come un abuso di Qe possa rendere dipendenti dagli acquisti sul mercato secondario i conti pubblici degli Stati membri e complicare il processo di normalizzazione. Secondo, la politica di sostegno ha creato lo sgradevole effetto collaterale del proliferare di zombie firms.
Insomma, alla Bce hanno scoperto l’acqua calda. C’è però un problema, decisamente sgradevole in prospettiva: questa presa d’atto di due effetti collaterali – in realtà, conseguenza diretta e ampiamente preventivabile, a meno di non far riferimento alla malafede come criterio di analisi – del processo di monetizzazione del debito e finanziamento diretto dei deficit, cosa comporterà nel futuro prossimo della ripresa post-pandemica?
Con gli indicatori macro relativi al Pil resi noti dalla Commissione Ue e tutti incentrati all’ottimismo, l’Eurotower come affronterà l’evento spartiacque del 10 giugno, il board che sempre più analisti vedono come atto prodromico a un principio di graduale ritiro dei sostegni? E d’altronde, proprio ieri è giunta l’ennesima conferma di rimbalzo dai dati PMI di manifattura, servizi e composito: tutti in risalita, addirittura con dati ben al di sopra delle attese proprio nell’area critica dei Paesi del Club Med, dove l’attività del settore dei servizi è cresciuta al ritmo massimo dal febbraio 2018. Di più, stando alle previsioni più ottimistiche del previsto sul turismo estivo, il Portogallo ha alzato il target di crescita per quest’anno a quasi il 5%. Insomma, materiale per i falchi del rigore. A cui la Bce ha fornito ulteriori appigli per mettere sul tavolo della discussione una normalizzazione più rapida del previsto della politica monetaria, proprio con quanto contenuto nel suo ultimo Fsr.
Per una volta, infatti, l’Eurotower ha parlato chiaro, come mostra questo grafico: «La necessità continuativa di supporto da parte dei governi potrebbe compromettere la sostenibilità delle finanze pubbliche e rendere più difficoltoso il ritiro della politica di supporto».
Di fatto, la poco sconvolgente constatazione raggiunta da chi, folgorato sulla via di Damasco, finalmente prenda atto della poco edificante pratica rappresentata dal somministrare whisky a un alcolizzato per cercare di farlo uscire dal tunnel della dipendenza. E le dinamiche degli spread già prezzano da almeno due settimane questo cambio di approccio dell’Eurotower. E nemmeno il combinato di conferma della liceità del Pspp giunta dalla Corte di Karlsruhe il 18 maggio e voto del Parlamento finlandese a favore del Recovery Fund ha sortito l’effetto sperato: la Bce ha acquistato titoli in quella giornata, sperando di invertire la tendenza dei giorni precedenti.
L’effetto è stato di corte respiro. Se non un rimbalzo del gatto morto, quantomeno moribondo. Salvo, il 20 maggio, sfoderare il bazooka sul mercato secondario e rispedire il nostro differenziale su quello del Bund in area 120 e non più 130 punti base. Ieri, poi, all’ora di pranzo si viaggiava attorno ai 113. In compenso, lo yield del decennale tedesco pativa vendite continue da inflazione e flirtava con quota -0,097%, il massimo dal 2019 e in area di ritorno alla positività: alla Bundesbank cominciano a innervosirsi. Anche perché, paradossalmente, ancora più grave appare la situazione legata alla questione delle zombie firms, come mostrano questi grafici: perché quando la sezione del Fsr dedicata all’argomento viene titolata Corporate zombification: post-pandemic risks in the euro area, la percentuale di interpretazione del grado di rischio ormai prezzata nelle previsioni appare decisamente residuale.
Se il primo grafico mostra come un’ampia rappresentanza di queste aziende, incapaci di gestire lo stock di debito attraverso l’operatività ordinaria del flusso di cassa, sia stata beneficiaria diretta di programmi di sostegno, ancor più preoccupante è il fatto che le stesse compongano la schiera di maggioranza in settori chiave e, a loro volte, ampiamente sostenuti dalle facilities ad hoc della Bce. Tradotto: se si ritira lo stimolo, ancorché gradualmente, quale entità – economica, occupazionale, bancaria e fiscale – assumerà sull’economia reale lo tsunami di default corporate conseguente e apparentemente ineluttabile? Tradotto ulteriormente, la conferma pratica delle parole preoccupate del numero uno di Confindustria a commento del Decreto sostegni bis. Troppo Stato, poca impresa.
Ma al netto di cosa accadrà il 10 giugno al board Bce, variabile che risente sempre maggiormente delle dinamiche di politica interna di una Germania che si prepara al voto del post-Merkel, quanto elencato finora contestualizza e mette in prospettiva la frustata sulla crescita vibrata giovedì da Mario Draghi, presentando il provvedimento. E bocciando senza appello la proposta del Pd rispetto a un tassa sulle eredità per finanziare un assegno da 10.000 euro per i diciottenni: una dote, l’ha definita Enrico Letta. Una boutade irricevibile, l’ha ritenuta il presidente del Consiglio, pur senza dirlo apertamente.
Nel rimandare al mittente tutte le proposte fiscali in arrivo e alternative a quelle decise dalla ristretta schiera di consulenti di palazzo Chigi, ivi comprese quelle del centro-destra sulla flat-tax, Mario Draghi ha implicitamente invitato tutti a leggere l’ultimo documento della Bce e prendere finalmente atto dell’ineluttabile.
Questa volta, la ricreazione sta finendo veramente. La stessa Eurotower, finora munifica e in grado di rintuzzare tutti gli attacchi (ben pochi, in verità) del fronte del Nord, ora ha preso atto del punto di non ritorno: o si sceglie la strada pressoché giapponese della curva di controllo sui rendimento e dell’instaurazione di un prodromo di helicopter money o si opera gradualmente – ma immediatamente – in senso contrario, normalizzando. Pena una vera e propria Spoon River di aziende zombie che rischia di andare a incidere – a livello occupazionale e di entrate fiscali – proprio sulla ripresa in atto, certificata dagli ultimi dati PMI.
Piaccia o meno, ora per il nostro Paese comincia il conto alla rovescia verso un momento spartiacque e di fondamentale importanza che si può paragonare alla prima corsa in bicicletta, dopo aver tolto le rotelle. Certo, fa paura. Certo, l’andatura è malferma. Certo, il rischio di sbucciatura al ginocchio è pressoché garantito. Ma occorre farlo. Sbaglierò, ma i partiti che compongono l’eterogenea e litigiosa maggioranza di governo non paiono affatto consci di questa fase di transizione, quantomeno stando alle proposte che avanzano e al loro tempismo rispetto alle reali priorità. Mario Draghi deve lavorare il doppio: da un lato, rimettere in piedi il Paese e fare in modo che esca dalle secche di questi ultimi 16 mesi di incubo senza più contare unicamente sull’Europa, sia essa declinata come Bce o Commissione. Dall’altro, domare ogni giorno gli istinti elettorali dei partiti, incapaci di comprendere la gravità della situazione e unicamente indirizzati verso una logica da interesse particolare in vista delle amministrative di autunno (14 milioni di italiani al voto, praticamente legislative sotto falso nome), certificata con la totale assenza di buongusto e senso dello Stato dalla candidatura fuori tempo dell’attuale presidente del Consiglio al Quirinale. Così, tanto per delimitarne – con un promoveatur ut amoveatur apparentemente lusinghiero – il campo (anche temporale) di azione riformista.
Atteggiamento rischioso, al limite del suicida. E molto più pericoloso per il nostro Paese dello stesso taper della Bce.
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