“La scuola d’estate non è una novità assoluta. Molti istituti propongono da anni le summer school. Ecco, con il piano scuola estate, e con il mezzo miliardo di euro che abbiamo messo a disposizione, abbiamo voluto far sì che queste iniziative non siano possibili solo nei contesti più fortunati, ma anche in quelli più difficili e deprivati”.
Stefano Versari, alla guida del Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e di formazione del Miur, è l’autore materiale della circolare “Piano scuola estate 2021. Un ponte per il nuovo inizio”, il cui obiettivo è chiaro: “Aprire la scuola – sottolinea Versari –, sulle orme di quel che già pensavano il pedagogista De Bartolomeis e don Milani per creare luoghi in cui costruire comunità e apprendimento. Non stiamo inventando niente: in questi tempi difficili legati all’emergenza Covid la scuola deve abbattere un po’ di muri, deve smetterla di pensarsi solo come aula, deve aprirsi”. E aggiunge: “Questo progetto non sarebbe partito senza la volontà e la determinazione del ministro Bianchi”.
La circolare sul Piano scuola estate 2021 ha colpito molti dirigenti scolastici e insegnanti perché in un documento ministeriale si parla esplicitamente di “cornice di senso”. Perché questa sottolineatura?
Si parla di “cornice di senso” perché a un’operazione di questo genere va data un’interpretazione non di natura strettamente amministrativa, ma più profonda, altrimenti si perde il senso stesso dell’investimento e dell’impegno richiesti. Va dunque ricondotta al suo significato. Il “Piano estate” si ripropone l’obiettivo di rafforzare le competenze disciplinari e relazionali in un contesto pandemico.
L’obiettivo è “ricucire il nesso fra gli apprendimenti e la propria esistenza, fra lo studio e ciò che è accaduto e continua ad accadere”. Che cosa implica tutto questo?
Ci si è resi conto, come hanno evidenziato tutte le indagini, tutti gli indicatori e la stessa percezione collettiva, della necessità di ricucire il significato di fare scuola in un tempo come questo, perché le difficoltà vissute e le prove a cui tutti, seppur in misura differente, sono stati sottoposti impongono di ricomprendere perché vale comunque la pena studiare, nonostante tutto quello che accade. Va ricucito il nesso tra una realtà dura, per alcuni durissima e per i ragazzi totalmente disorientante, e uno studio che se non è ricondotto a una realtà vissuta diventa straniante.
La circolare sottolinea che la pandemia ha accentuato la povertà educativa…
Tutti siamo ormai consapevoli del fatto che questa emergenza Covid ha determinato nuove povertà educative. Con questo termine, però, non dobbiamo indicare solo una povertà disciplinare, ma anche nuove povertà economiche e sociali, aggravamento di queste condizioni per chi già viveva in contesti deprivati. L’essere umano non è una monade, vive in comunità, vive di relazioni. Ci siamo dunque posti la questione di cosa si potesse fare per questi ragazzi che hanno patito e soprattutto per quelli che già patiscono di più perché inseriti in contesti svantaggiati. Per capirlo basta un piccolo esempio.
Prego.
In piena emergenza tutti hanno detto: compriamo i computer per i ragazzi più poveri che non li hanno. In Emilia-Romagna, per esempio, gli studenti con diritto allo studio sono circa 20mila, il 3-4% del totale, un numero ridotto. Ma consegnato il computer non siamo affatto a posto. Questa è una soluzione semplicistica.
Perché?
Le indagini ci dicono come i ragazzi che vanno peggio a scuola siano quelli con genitori poco istruiti e che vivono in condizioni economiche, sociali e culturali deprivate. Ebbene, c’è un sotto-indicatore di povertà, misurato ogni anno con l’Invalsi, che si chiama Homepos e misura il benessere economico-culturale dello studente. In pratica, rivela il contesto e la dotazione familiari dei ragazzi: hanno una stanza in cui poter studiare? Hanno un computer? Hanno una connessione digitale? Hanno dei libri da consultare? In base all’Homepos abbiamo scoperto che il 20% degli studenti studia in condizioni gravemente insufficienti. Ecco perché dare semplicemente un computer non serve a granché.
A queste povertà educative, quindi, le scuole possono rispondere proprio quest’estate. Per questo, secondo lei, il piano è la “prima preziosa occasione” di contrasto alle fragilità educative?
Ricucire le povertà educative significa fare scuola a una persona che non vive in un’astrazione, ma in una realtà ben precisa. Il bisogno educativo è molto più complesso, non basta avere un computer per studiare.
Come si articola il piano?
Non abbiamo voluto redigere un piano dettagliato. Lo studente non è frammentabile né frammentato. Noi tendiamo a definire, ad articolare le operazioni, ma la persona vive in una continuità. Perciò abbiamo fissato obiettivi temporali senza indicare date precise. Abbiamo cioè voluto solo descrivere il piano, per una facilità di comprensione.
Come si dipana questa descrizione?
Abbiamo individuato un primo tempo in cui finisce l’anno scolastico e sulla base degli scrutini, cioè di una valutazione non estemporanea ma di un percorso di insegnamento e di apprendimento, si valuta che cosa è possibile fare per aiutare al meglio lo studente in relazione alle sue difficoltà di apprendimento, di socializzazione o di altra natura.
Poi c’è un secondo tempo, giusto?
A luglio e agosto, consapevoli che ci sarà una larga quota di ragazzi con le maggiori povertà educative che rimarrà nel proprio contesto abituale, si punterà a rafforzare le loro competenze, soprattutto di natura relazionale.
E a settembre?
Quel periodo sarà recuperato come reintroduzione al nuovo anno scolastico, perché il piano estate non finisce con l’estate e nemmeno con l’autunno.
La circolare lascia spazio alle singole istituzioni scolastiche affinché esercitino “l’autonomia didattica e organizzativa loro attribuita”. In concreto, che cosa significa? Che spazi hanno le scuole e come possono utilizzarli?
Se l’obiettivo è ricucire il nesso fra apprendimenti e realtà nei singoli contesti e per ciascuna persona, è impensabile definire con una circolare qual è il bisogno più concreto, più prossimo, più utile per un ragazzo che vive nel centro di Bologna o per un altro che vive allo Zen di Palermo. Contesti ed esigenze sono diversi e diverse devono essere le attività, perché devono essere correlate a quel che serve davvero a quegli studenti. Le scuole non devono fare i centri estivi, devono fare le scuole. Se poi in certi luoghi non ci sono centri estivi o luoghi di aggregazione, lì la scuola dovrà cercare di rimanere il più possibile aperta e di costruire il più possibile spazi di comunità. Dunque, una risposta unica non esiste e non avrebbe alcun senso, e questa è l’autonomia delle istituzioni scolastiche. Attenzione, però. Autonomia non significa indipendentismo o anarchia, significa che dentro gli obiettivi essenziali per il bene dei ragazzi le singole scuole sono chiamate a esercitare la loro responsabilità nella realtà concreta in cui si trovano.
Il Piano scuola estate 2021 intende “favorire il rinforzo delle competenze acquisite in contesti formali, informali e non formali, in linea con l’Obiettivo 4 dell’Agenda 2030”. È un’apertura alle character skills?
Indubbiamente sì. Che differenza c’è tra le buone regole di comportamento che un tempo venivano insegnate? In una comunità è necessario sapersi rapportare con gli altri, valorizzando e acquisendo una serie di competenze che sono ancora di natura relazionale, comunicativa, comportamentale. Il galateo è nato nel Settecento…
Sta paragonando le character skills al galateo?
Da un certo punto di vista, sì. Il galateo tre secoli fa era il modo per riuscire a comunicare con l’altro, le character skills sono la modalità evoluta con cui abbiamo compreso che non si tratta tanto di imparare delle regole comportamentali, bensì di imparare delle competenze specifiche, né più né meno come le discipline didattiche, per essere in grado di comunicare ciò che si è imparato e di relazionarsi con gli altri.
A proposito di character skills, condivide la lettura che ne ha dato Galli della Loggia nell’editoriale sul Corriere del 5 maggio, secondo la quale la scuola deve trasmettere saperi, mentre le soft skills hanno una derivazione aziendalistica?
La scuola deve trasmettere saperi, ma il sapere relazionale è fondamentale al pari dei saperi disciplinari. Quell’affermazione è un controsenso logico.
Quante scuole hanno finora aderito al piano estate?
Su 8.054 istituzioni scolastiche statali in Italia ben 5.162, un numero dunque elevato, si sono candidate per il Pon. E tenuto conto che il piano è stato realizzato in tempi brevissimi, una tale adesione non era affatto scontata.
“L’adesione degli studenti, delle loro famiglie e dei docenti sarà su base volontaria”: si aspetta un’adesione massiccia da parte di tutte le componenti del mondo scuola?
Resto convinto che il pregiudizio può essere superato e sconfitto solo dalla realtà. Là dove le scuole riusciranno a realizzare, e molte lo stanno già facendo, proposte belle, intelligenti e opportune al contesto di riferimento, l’adesione sarà, come sta avvenendo, ampia.
Pensate a iniziative di comunicazione per sensibilizzare dubbiosi e contrari?
Le campagne di sensibilizzazione non mancano: sono stati realizzati progetti da diversi uffici scolastici, siglate intese e già molte scuole hanno avviato iniziative splendide.
Tenere aperte le scuole d’estate richiede un impiego eccezionale di risorse. Dal punto di vista finanziario sono a disposizione 520 milioni di euro. È una cifra congrua rispetto alle possibili esigenze?
Sicuramente. E sono tutte risorse a disposizione degli organi collegiali e dei consigli d’istituto per realizzare il progetto. Se per fare la scuola d’estate si avrà bisogno dell’autobus per portare gli studenti in una determinata area della città, quei soldi serviranno per pagare l’autobus e l’autista. Se si avrà bisogno di tenere aperta la scuola nel pomeriggio, si pagheranno con quelle risorse gli operatori scolastici che consentiranno questa apertura.
I fondi serviranno a pagare anche i docenti che accetteranno di fare scuola d’estate?
Certo. Con un solo vincolo: bisogna stare nell’ambito della cifra stanziata, non si può sforare. Ma ritengo che mezzo miliardo di euro sia una cifra enorme.
Lei cosa si aspetta da questo piano scuola estate?
Essenzialmente due cose. La prima: riuscire a intercettare i bisogni concreti di molti studenti che sono oggettivamente in difficoltà. La seconda: da questo metodo apparentemente sui generis spero che gli istituti scolastici possano comprendere meglio come saremo chiamati a fare scuola in futuro, una scuola aperta alla società, alla realtà, a tutto il capitale sociale che un territorio può e sa esprimere.
(Marco Biscella)
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