Se l’Ue può avere un futuro come istituzione internazionale di profilo continentale deve necessariamente trasformarsi da aggregato di potenze terrestri in istituzione di potenze marittime tra l’Atlantico e quel lago adriatico che è il Mediterraneo, sulle cui sponde e nelle cui acque si trovano i giacimenti energetici più preziosi del mondo e si aprono le vie per il Grande Medio Oriente e lo Heartland e soprattutto il cuore del mondo: il Congo, come dimostra la guerra infinita del Sahel con l’impegno continuo della Francia in armi.
L’ostacolo principale verso questa trasformazione è il ruolo schiacciante della potenza tedesca, che guarda al suo spazio di rafforzamento secondo una dimensione squisitamente economica e fatica a liberarsi dai lasciti di una storia che non passa e continua a rimanere priva di una forza armata che oggi non potrebbe essere che integrata con quella transatlantica della Nato, in cui via via le dimensioni autonomistiche di ascendenza gollista stanno spegnendosi.
La Francia e l’Italia sono entità statuali inevitabilmente concorrenti e destinate o a confrontarsi secolarmente, o a integrarsi in una dimensione federale europea che la scelta funzionalista voluta da Jean Monnet e dall’equilibrio di potere imposto dalla Guerra fredda rese impossibile per le rivalità che corrono sul Reno e tracimano nella Manica.
Il Regno Unito era la sola entità statuale cosmopolita che avrebbe potuto svolgere il ruolo di frenare le aspirazioni imperialistiche tedesche e contemperarle con quelle francesi. Oggi la Brexit lascia di nuovo ciò che resta del sogno politico europeo denudato, spoglio e confuso per la povertà strategica delle sue élites, che non hanno saputo accordarsi per scrivere una Costituzione europea, confederale o federale che fosse; la sola via di salvezza che poteva garantire all’Ue di essere non la gabbia di acciaio che oggi è, ma l’inizio di un percorso per trasformare un impero senza imperatore in un impero ordinato dalla legge. La concentrazione capitalistica avrebbe potuto inverarsi più celermente e superare le faglie di sviluppo ineguale e le crisi ricorrenti da deflazione secolare che incombono pesantemente su di essa per il dominio olandese-tedesco che permane fortissimo.
Per questo i dialoghi tra Macron e Draghi sull’Africa vanno studiati e compresi con interesse e profondità. Segnano l’inizio di una storia unitaria dei capitalismi estrattivi francesi e italiani? Solo unendosi essi possono abbattere la guerra asimmetrica dello stato islamico fondamentalista, assicurare il ritorno della gerarchia dello Stato nella questione dei migranti contro la criminalità degli scafisti e delle tribù arabe schiaviste e insieme trovare accordi parziali ma solidi per lo sfruttamento energetico delle fonti nordafricane e del Grande Medio Oriente.
La necessità di un accordo (il trattato in fieri tra le ombre franco-italiane di cui si sussurra da anni e affidato a poteri tanto visibili da essere comici?) è una necessità imperiosa, se non si vuole che il vuoto lasciato dalla tragica eliminazione di Gheddafi e delle sue tribù affiliate segni il ritorno della mezzaluna ottomana sotto altre spoglie e l’accrescersi della contendibilità che i russi hanno da sempre in animo di estendere nel Mediterraneo. Se le due potenze che sono legate da un destino comune sia nella crescita, sia nella crisi del tardo capitalismo – Italia e Francia – non sapranno trovare con ragionevolezza la strade della cooperazione africana, la discrasia tra la questione demografica e la questione della nuova crescita economica africana, fondata su nuove borghesie autoctone, sarà troppo forte per non riversarsi nella stessa Europa.
I fuochi nelle banlieues francesi, le proteste delle minoranze turche e curde in Germania, la ribellione contro lo sfruttamento selvaggio del capitalismo pezzente italico delle popolazioni lavoratrici nere che sono tra le più dignitose del mondo in Italia, sono fuochi che covano sotto le ceneri di un’integrazione mai raggiunta e che, generazione dopo generazione, si ripropone in tutto ciò che rimane degli Stati europei, uniti per quanto sia possibile dai trattati Ue.
O si lavora “centralizzati” in Africa o si soccomberà nel disordine, come già si è rischiato di fare per le ondate della guerra santa jihadista che sempre è pronta a divampare, sconfitta dopo sconfitta, ma mai spenta.
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