Che cosa resta del calcio alla fine di questa folle annata? La tradizionale ipocrisia, gli immancabili opportunismi. Alla fine della prima stagione “all Covid”, cioè completamente determinata dalla pandemia, tra le malattie dei protagonisti (dai dirigenti ai giocatori agli impiegati), gli stadi deserti dalla prima all’ultima giornata (anche se qualche spettatore, alla fine s’è visto), e la crisi economica, non è comparsa l’unica risposta possibile. E cioè una nuova visione, un programma comune.
La risposta è ancora la navigazione a vista, ognuno per sé. Così è sempre stato, ma così, in un periodo come questo, non dovrebbe più essere. Il calcio è passato dalle spese folli al ridimensionamento senza soluzione di continuità, senza linee guida.
Prima c’erano i soldi, o per lo meno esisteva una “finanza creativa”, adesso bisogna barcamenarsi. L’Inter campione d’Italia ha perso 70 milioni solo per i mancati introiti da stadio, “sono quattro mesi di stipendi” ha spiegato il direttore generale Beppe Marotta. Antonio Conte se n’è andato perché gli hanno prospettato investimenti a bassa intensità. Non è che la Juventus stia meglio, anzi; però almeno Exor non ha smobilitato e la Famiglia possiede la Juventus da cent’anni, non è Suning, azienda priva di legami con questo paese. Il Milan è stato più virtuoso, dimezzando le perdite: “solo” 90 milioni. Ma non può scialare, essendo proprietà di un fondo che prima degli scudetti vuole i dividendi.
Tanti anni fa, raccontano le leggende del pallone, quando i presidenti dei club erano più ruspanti, uno di questi chiese al suo allenatore che cosa mancasse alla squadra per migliorare. Il tecnico rispose: “L’amalgama, presidente”. E l’altro: “Dove gioca? Lo prendiamo”. Ecco, quello che manca è proprio un progetto comune, l’amalgama tra le varie componenti. L’Uefa, la Fifa, ma soprattutto la prima, non sono riuscite a creare un sistema sostenibile.
Il presidente dell’Uefa, Aleksander Ceferin, ha scatenato la caccia alle streghe della Superlega, ma senza accorgersi – o evitando di farlo – del malessere che stava alla base di questo tentativo. Tutti hanno pensato che fosse il potere, un contro-potere, in realtà erano i soldi. Si può essere competitivi anche con i bilanci a posto, è la risposta. Si può essere competitivi come il Manchester City e il Chelsea, finalisti di Champion’s League, con i miliardi di un magnate russo o quelli di un emiro.
Per stare in Italia, il Napoli ha i bilanci sani. Aurelio De Laurentiis è un personaggio a volte urticante, ma il suo club è ben amministrato ed è ai vertici da anni. Ai vertici, sì, però lo scudetto non lo vince dai tempi di Maradona. Negli ultimi vent’anni, il triangolino tricolore lo hanno cucito sulle maglie solo tre squadre – Juventus, Inter e Milan -, cioè le tre italiane imbarcate sul primo vascello della Superlega. La Superlega è morta, la Superlega vive.
Il calcio attraversa una schizofrenia evidente, acuita dai problemi portati dalla pandemia. Qualche giorno fa gli ultrà dell’Inter sono andati a protestare, dopo l’addio di Conte, per l’annunciato ridimensionamento. Marotta li ha ricevuti. “Hanno capito” ha spiegato a un evento organizzato dal Foglio. Fino a quando? Tutto traballa, ma i tifosi non capiscono quando il mercato del loro club è fiacco e non arrivano i migliori o quelli che ci sono vengono ceduti per mettere i conti a posto.
Giocatori e procuratori, nel frattempo (vedi caso Donnarumma), non accennano a cambiare strategia, alzando le richieste. Insomma, il calcio sembra non aver imparato nulla. È un fatto che il termine “sostenibilità” sia entrato anche nel vocabolo del calcio. Vedremo nei prossimi anni se si dimostrerà qualcosa di più di una parola.
Ma una cosa la possiamo dire. Sostenibili, oltre alle finanze, dovrebbero essere i comportamenti, gli atteggiamenti, il tifo, le parole, il modo di essere di chi gravita attorno al calcio. Per parafrasare Gaber, sostenibilità non è affidarsi a qualcuno che renda il calcio sostenibile, sostenibilità è che tutti partecipino a renderlo tale.
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