L’affievolirsi della drammatica crisi pandemica, l’euforia per le riaperture e le prossime agognate vacanze, rischiano di rendere nuovamente secondarie questioni su cui invece pensavamo di aver raggiunto un buon grado di consenso generale nell’indicarle come priorità.
Risulta abbastanza evidente, ad esempio, che un paese che aspira a ricostruirsi e a riprendersi rapidamente avrebbe bisogno di tutte le sue energie, e non solo finanziarie. Mi riferisco in particolare a quell’enorme patrimonio di esperienze e competenze rappresentato dai nostri giovani che hanno deciso o sono stati costretti a vivere e lavorare all’estero.
Hanno un’età tra i 20 e i 40 anni, sono quasi tutti laureati e con un alto livello di specializzazione, spesso hanno messo su famiglia, hanno dimestichezza con le lingue e conoscono molto bene il sistema di garanzie sociali dei paesi che li ospitano. Vengono in Italia per le vacanze, per salutare i loro familiari, rivedere gli amici. E poi ripartono, come facevano gli emigranti di 60 anni fa.
La Corte dei conti, nel referto sul sistema universitario pubblicato pochi giorni fa, quantifica l’incremento della fuga di cervelli rispetto al 2013 addirittura in un +41,8%. Se a questo dato aggiungiamo che l’Italia è uno degli ultimi paesi per laureati (solo il 27,6%) in Europa (la cui media è del 40,3%), la situazione va considerata in tutta la sua gravità.
Entrando poi nel merito, dobbiamo rilevare che tra questo già scarso numero di laureati, quelli in fuga sono soprattutto quelli che hanno titoli in discipline Stem (scienze, tecnologie, ingegneria e matematica) e che ovviamente sono attratti sia da opportunità di lavoro più appaganti economicamente che per la qualità della vita loro offerta.
I tentativi fin qui fatti per riportarli a casa hanno dato risultati insoddisfacenti. Intervenire solo sulla leva fiscale è risultato fallimentare. Le misure dei governi Letta-Renzi, che hanno introdotto una defiscalizzazione massiccia per i primi tre anni di residenza in Italia, hanno ingolosito, come sappiamo, le star del calcio che hanno trovato molto conveniente trascorrere gli ultimi anni di carriera nel nostro campionato, ma hanno inciso poco o nulla rispetto al problema principale.
Il punto è che mancano politiche coordinate a livello europeo, scarsa attenzione ai problemi specifici del comparto privato, ma soprattutto sono inesistenti le occasioni di lavoro nel “pubblico”, in generale mal pagate e con percorsi di carriera soggetti a logiche di potere e di nepotismo. Come spesso capita anche nel settore della ricerca, e in tante altre categorie del nostro mondo accademico e scientifico.
Un esempio per tutti lo abbiamo potuto toccare con mano durante la pandemia. Quando abbiamo dovuto prendere atto di una carenza cronica di medici specializzati a causa dei tagli drastici fatti durante gli anni dell’austerità al sistema di selezione del personale medico di alto livello. Così abbiamo scoperto che per i quasi 16mila posti vacanti esistono altrettanti medici italiani inquadrati nella sanità di altri paesi europei (dalla Francia all’Islanda) dove percepiscono ottimi stipendi e a cui sono garantiti percorsi di carriera meritocratici e trasparenti.
Inoltre c’è un problema di contesto, inteso come sistema di servizi e benefit di cui un giovane italiano gode quando vive in una città del nord Europa o degli Stati Uniti. Inutile negare che sono paesi che hanno per tempo sviluppato politiche intelligenti verso le giovani coppie, creato per loro un efficiente sistema di welfare e offrono strutture per l’infanzia di alto livello.
Ci servirebbero questi giovani per rifare l’Italia, come trionfalmente promette il Pnrr? Penso di sì, e penso soprattutto al Mezzogiorno, alla sua pubblica amministrazione, al grande lavoro di riorganizzazione della sanità dopo la pandemia. E sarebbe anche di un certo interesse per il nostro paese che questi giovani – ritornando in Italia con le loro famiglie – portassero con sé anche quel bisogno di servizi qualificati ed organizzazione sociale di cui abbiamo perso semplicemente la cognizione negli ultimi dieci anni.
Tra le tante prove che ci attendono ecco un modo di porre in alto l’asticella per i nostri politici. Soprattutto per quella leva di amministratori locali di cui sentiremo parlare molto nei prossimi mesi in vista del rinnovo di tante amministrazioni.
Il filosofo napoletano Sebastiano Maffettone ha scritto ieri: “Il primo impegno morale del prossimo sindaco di Napoli dovrebbe essere quello di dare ai giovani napoletani la speranza di poter fare quello che sanno fare là dove sono nati e cresciuti”. Un programma semplice, che richiede però la costante ricerca di una soluzione, la perseveranza nel perseguire una priorità, l’onestà di dire che i nostri giovani vengono prima degli interessi di tante corporazioni, vecchie anagraficamente e culturalmente, stanche e senza alcuna fiducia nel futuro.
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