CAOS ILVA. Quella emessa dalla Corte d’Assise di Taranto a conclusione del processo Ambiente svenduto riguardante i presunti reati commessi in materia ambientale durante la gestione del Gruppo Riva dello stabilimento siderurgico ionico, con le pesanti condanne che l’hanno sostanziata, resta – è appena il caso di ricordarlo – una sentenza di primo grado, certo molto significativa, ma ancora di primo grado, che poi dovrà andare al vaglio di un giudizio d’appello e poi in Cassazione, prima di passare in giudicato.
Pertanto, al di là delle dichiarazioni di tutti coloro che l’hanno salutata come sentenza epocale che dovrebbe a loro dire chiudere una volta per sempre la storia della siderurgia nel capoluogo ionico, è opportuno ribadire per tutti gli altri che sono sempre stati, e resteranno, convinti garantisti che si è ancora a una sentenza di primo grado, di cui peraltro si dovrebbe attentamente studiare l’intero dispositivo (non appena sarò noto) non solo da parte della Pubblica accusa e dei collegi difensivi dei vari imputati, ma anche, a nostro avviso, dalle Autorità governative, dalla Confindustria e dai Sindacati confederali e di categoria.
Perché riteniamo di doverlo affermare? Perché, al di là delle condanne – una delle quali a lui riferita ha suscitato lo sdegno dell’ex presidente della Regione Nichi Vendola, riportato da tutte le agenzie – vi è una disposizione del collegio giudicante che suscita fondate domande negli osservatori più attenti, ed è quella concernente la confisca degli impianti dell’area a caldo: una statuizione che, naturalmente, al momento non ha alcun effetto pratico, non essendosi come si diceva in precedenza in presenza di una sentenza passata in giudicato, ma che meriterebbe sin da ora attenta riflessione per intuibili ragioni.
Premesso che l’area a caldo – non lo si dimentichi mai – è tuttora sotto sequestro ma con facoltà d’uso stabilita da una legge del dicembre 2012 che classificava l’impianto di Taranto come “sito di interesse strategico nazionale”, è altresì opportuno ricordare che il Gruppo Ilva è ancora di proprietà pubblica perché appartenente all’Amministrazione straordinaria che lo ha venduto, dopo la relativa gara, ad Arcelor Mittal che, tuttavia, al momento lo ha solo in locazione propedeutica però all’acquisto che dovrebbe perfezionarsi entro il maggio del 2022.
Allora, un primo punto da evidenziare riguarda la natura tuttora pubblica del compendio impiantistico dell’ex Gruppo Ilva.
Arcelor Mittal a sua volta costituì una sua controllata denominata AmInvestco Italy per la gestione dei vari impianti, società nella quale di recente è entrata Invitalia versando 400 milioni e assumendo una quota del 38% del capitale e del 50% dei diritti di voto. Pertanto, anche il gestore degli impianti vede la partecipazione paritetica al suo capitale sociale di una società a controllo pubblico, e ha mutato ragione sociale con la nuova denominazione di Acciaierie d’Italia che farà capo ad Acciaierie d’Italia holding nella quale entro il prossimo anno Invitalia potrebbe salire al 60% del capitale sociale.
Allora stabilire – sia pure, lo si ripete, in una sentenza di primo grado senza al momento alcun effetto pratico sul ciclo produttivo – che devono essere confiscati gli impianti tuttora di proprietà pubblica, e per giunta gestiti da una società pariteticamente partecipata dallo Stato tramite Invitalia, futuro azionista di maggioranza della compagine gestionale, cosa significherebbe di fatto? Che lo Stato confischerebbe se stesso e una sua proprietà, gestita peraltro da una società di cui lo Stato stesso è socio paritetico e in un prossimo futuro socio di maggioranza?
Potremmo sbagliarci, ma non rischierebbe di essere un esito per certi aspetti paradossale dell’intera vicenda Ilva? Un bene cioè ancora posseduto da una procedura pubblica – e la cui futura vendita dovrebbe sia pure molto parzialmente ristorare per legge i creditori – verrebbe confiscato e acquisito al patrimonio statale da una sentenza di uno degli organi dello Stato.
E una considerazione similare si potrebbe formulare per l’imminente sentenza del Consiglio di Stato che dovrebbe confermare o meno quella del Tar di Lecce che su ricorso del Sindaco del capoluogo ionico aveva stabilito lo spegnimento della stessa area a caldo, la cui dismissione coatta tuttavia significherebbe di fatto ledere strutturalmente il valore di un bene (lo ripetiamo) tuttora di proprietà pubblica. Anche in questo caso un organo della Giustizia, nella fattispecie amministrativa, se stabilisse lo spegnimento di quell’area, finirebbe col diminuire il valore di un compendio impiantistico di proprietà pubblica e gestito al momento da una società pariteticamente partecipata dalla Stato.
Allora, a fronte di queste situazioni che rischiano di innescare un groviglio giuridico quasi inestricabile, è giunto il momento, ad avviso dello scrivente, che il Governo e il Parlamento – insieme a tutti gli stakeholder interessati al rilancio pienamente ecosostenibile dello stabilimento di Taranto – affrontino risolutivamente la questione della transizione tecnologica e dell’ambientalizzazione avanzata del Siderurgico ionico che è, e deve restare, sul mercato come pilastro del sistema manifatturiero nazionale che occupa, non lo dimentichiamo mai, 8.200 addetti diretti più circa 5.000 nell’indotto, senza dimenticare gli occupati negli impianti a valle di Genova e Novi Ligure.
Non c’è più tempo da perdere al riguardo: lo Stato anticipi l’ingresso in maggioranza nella compagine sociale di Acciaierie d’Italia holding e nella sua controllata e avvii, ma nei tempi tecnici necessari e senza fughe nell’utopia, il processo di transizione tecnologica dell’acciaieria di Taranto, concordandola con Confindustria, Sindacati e stakeholder locali.
Al termine di queste nuove riflessioni su questo stabilimento, che tuttora è la più grande fabbrica d’Italia per numero di addetti diretti, vogliamo sottolineare che la storia della siderurgia a Taranto non è una storia criminale, come affermano invece gli estremisti dell’ambientalismo antindustrialista. Quell’impianto dalla seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso venne fortemente voluto dalla popolazione locale e da chi l’amministrava perché il capoluogo ionico stava subendo il lento ma inesorabile declino dell’industria navalmeccanica nell’Arsenale della Marina Militare e nei cantieri della Franco Tosi, con la perdita emorragica di migliaia di posti di lavoro di loro tecnici e operai. E quello stabilimento – ed è bene che lo ricordino tutti, soprattutto coloro che guardano con ostilità a esso, ma con i loro redditi ben garantiti da impieghi statali – continua tuttora ad assicurare reddito qualificato alle molte migliaia di coloro che lavorano nei suoi reparti e nelle attività manutentive e di supporto.
Allora, una cosa è battersi come fanno i Sindacati confederali e tutti coloro che vi sono occupati per uno stabilimento pienamente ecosostenibile con l’impiego delle tecnologie più avanzate e nuovi massicci investimenti, e ben altro è pretendere la chiusura tout court di questa grande fabbrica senza la quale, se ne facciano tutti una ragione, l’economia della Puglia, di Taranto e del suo hinterland subirebbero una mazzata strutturale devastante di lunga durata alla quale non potrebbero certo offrire sollievo occupazionale e reddituale le labili iniziative di diversificazione che pure si stanno tentando in questi mesi da parte degli Enti locali, presentate con grande enfasi propagandistica, ma che, al momento, hanno generato poca occupazione e neppure, almeno nella maggior parte dei casi, a tempo indeterminato.
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