È andato in onda lo scorso lunedì su RaiUno un documentario curato personalmente da Gian Micalessin, corrispondente di guerra de Il Giornale e di altre testate, entrato clandestinamente in Birmania, per raggiungere i campi dove gli oppositori fuggiti dalle città dopo i massacri dell’esercito si addestrano alla lotta armata. Come ci aveva già raccontato il nostro contatto in Myanmar, “la popolazione è così disperata che pensa al suicidio o a unirsi ai gruppi di ribelli che in Birmania, divisa da decine di etnie, lottano contro il governo centrale sin dall’indipendenza del 1949”.
Secondo Micalessin, confermando ciò che ha rivelato fin dall’inizio il nostro contatto, “è evidente che dietro il recente colpo di stato e il ritorno al passato c’è la Cina, che ha sempre controllato il Myanmar, utile per il passaggio di gas e petrolio dal Golfo Persico fino alla Cina stessa, vista la guerra fredda sempre più stringente tra Stati Uniti e paesi alleati della zona come Giappone, Malesia e Borneo, che potrebbero arrivare al blocco dello stretto delle Molucche impedendo il rifornimento della Cina”.
Ti sei recato tra i ribelli Karen, una delle tante etnie birmane. Chi sono esattamente? La loro lotta contro il regime dei generali era già in atto da prima del recente colpo di Stato?
I Karen combattono dal 1949 contro il governo centrale. Sono un’etnia di circa 120mila persone, che vivono nelle zone al confine con la Thailandia. Come era già successo nel 1988, dopo i massacri operati dall’esercito contro i manifestanti per la democrazia molti oppositori stanno scappando e li raggiungono per addestrarsi e poi tornare a combattere nelle città.
In tutti questi anni il governo birmano non è mai riuscito a sconfiggerli?
Dal 1949 i loro territori si sono sempre più ristretti. Quando sono andato la prima volta in Birmania negli anni 80, controllavano territori molto più ampi, poi a inizio anni 90 il regime condusse alcune offensive, conquistò la capitale e i loro territori si ridussero. Dopo il 2010 i ribelli hanno riconquistato varie zone ai confini con la Thailandia.
Da quanto si vede nel documentario sembrano milizie molto ben organizzate e armate. Ricevono sostegno economico da qualche potenza straniera?
No, si autofinanziano tassando i materiali che passano per il loro territorio, una sorta di dogana, e imponendo pagamenti alle popolazioni. In verità hanno pochissime armi. Nel mio documentario si vede che le armi che vengono date per i primi addestramenti sono fucili di legno. Soffrono la mancanza di armamenti adeguati per contrapporsi all’esercito birmano, che invece dispone di armi molto sofisticate.
È un esercito molto potente?
Non proprio, ma si può dire che è un esercito ben armato.
Sono molte le persone che si uniscono ai ribelli?
Sono parecchie. Nel campo che ho visitato io ne erano passate una trentina. Bisogna tener conto che molti vengono fermati, non riescono ad attraversare la giungla, ma poi ci sono molte altre etnie ribelli in Birmania e tanti raggiungono queste a seconda delle possibilità. Sono almeno una decina le etnie che combattono attivamente contro il governo centrale. Il numero di oppositori che si stanno recando da loro è notevole, perché è tanta la disperazione dei birmani. Dimostravano pacificamente sperando nell’aiuto dell’Occidente, che invece non ha fatto niente. Sono stati massacrati dall’esercito senza che nessuno sia intervenuto. Questa disperazione li ha portati a cercare la lotta armata come unica forma di opposizione al regime.
Cosa potranno fare contro un esercito come quello birmano? Una semplice guerriglia? Che prospettive hanno?
La differenza rispetto al passato è che si parla di divisioni all’interno del regime, di unità di polizia che stanno rompendo con l’esercito, ma anche divisioni all’interno dell’esercito stesso. Il capo supremo dell’esercito, quello che aveva stipulato l’accordo del 2010 che portò a una blanda apparenza di democrazia, oggi ha più di 80 anni, ma può contare ancora su una serie di generali che stanno nella sua cerchia. Sembra che di questi generali non tutti abbiano accolto con piacere il ritorno al passato sancito dal colpo di Stato e che vorrebbero tornare all’intesa con la Casa Bianca siglata quando c’erano Obama e Joe Biden come vicepresidente. Anche perché quello di adesso è un ritorno nelle braccia della Cina, che è stato il grande protettore celato del vecchio regime birmano dagli anni 60.
A proposito di Cina, molti dicono che il vero motivo del colpo di Stato in Myanmar sia la voglia di potere e di ricchezza economica che i generali non vogliono perdere. È così secondo te?
In realtà la ricchezza personale dei generali negli ultimi anni di apertura non era diminuita, forse anche aumentata, grazie all’apertura dei commerci con l’Occidente. Il monopolio era rimasto saldamente nelle loro mani.
Quindi è un ritorno nella sfera di controllo della Cina?
Sì, perché la Cina ha tutto l’interesse a dominare il Myanmar nell’ipotesi di uno scontro nel Sud Pacifico con gli Usa, che potrebbe portare a un blocco dello Stretto delle Molucche tramite l’alleanza tra Giappone, Usa, Malesia, Borneo e altri paesi legati all’America. Controllando la Birmania, la Cina può sfruttare i terminal che si trovano nel Golfo del Bengala, ovvero lungo la costa occidentale della Birmania, dove ci sono le infrastrutture della Nuova Via della seta, gasdotti e oleodotti che portano direttamente risorse energetiche dal Golfo Persico, attraverso proprio il Myanmar, alla Cina.
(Paolo Vites)
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