Nella fase iniziale dell’emergenza Covid l’Italia era a corto di mascherine, eppure furono mandate due tonnellate di dispositivi di protezione individuale in Cina. È quanto emerge dai verbali della task force che sono stati pubblicati grazie alla battaglia di Galeazzo Bignami di Fratelli d’Italia. Quei documenti non permettono solo di ricostruire i giorni che hanno preceduto la scoperta dei primi casi in Italia, ma contengono elementi che gettano ombre sull’operato di alcuni elementi di spicco del governo, a partire dal ministro della Salute Roberto Speranza e quello degli Esteri Luigi Di Maio. Quando fu inviato materiale sanitario in Cina la task force era ben consapevole del fatto che la disponibilità di dispositivi medici, mascherine e respiratori in Italia fosse limitata. Eppure presero comunque il volo da Brindisi direzione Pechino. L’Italia rimase di fatto “sguarnita”, forse nella convinzione che il coronavirus non sarebbe arrivato nel nostro Paese? Furono sottovalutati i rischi? È un’ipotesi, anche alla luce del fatto che in quei giorni si diceva che il coronavirus non circolava in Italia. Ma facciamo un passo indietro, al 29 gennaio, una settimana dopo l’istituzione della task force. Il segretario generale del Ministero della Salute Giuseppe Ruocco comunicò ai presenti che erano in corso “rilevazioni di mercato per eventuale acquisto di dispositivi di protezione individuale, guanti, tute e mascherine”.
Una preoccupazione comprensibile, che cresce il 2 febbraio, quando arrivano brutte notizie dalle aziende che producono dispositivi medici. “Le informazioni non arrivano celermente”, è la prima osservazione che si va. Dunque, una sola ditta rispose all’appello riferendo di avere in stock appena 800mila mascherine e di poterne recuperare al massimo 400mila in dieci giorni. Poco, considerando quanto ne sarebbero servite. Il 4 febbraio Confindustria informa il governo che la disponibilità è sufficiente solo per due-tre mesi, quindi al massimo fino ad aprile. Nel verbale si legge che “i problemi di approvvigionamento che riguardano le mascherine sono gli stessi di quelli dei dispositivi medici”.
POCHE MASCHERINE, MA PARTONO COMUNQUE PER LA CINA…
La situazione non migliora col passare dei giorni, anzi il quadro tende a complicarsi. Il 12 febbraio il segretario generale del Ministero della Salute Giuseppe Ruocco ribadisce che la “disponibilità di dispositivi medici è limitata” e che si era tenuto un incontro con le associazioni di categoria per “quantificare l’approvvigionamento ed eventualmente bloccare la vendita a privati, riservando le scorte al Servizio Sanitario Nazionale”. L’ultimo alert di Ruocco risale al 12 febbraio. Dunque, tutti nella task force sono consapevoli che c’è carenza di dispositivi medici, anche il ministro della Salute Roberto Speranza, sempre presente alle riunioni. C’è chi ipotizza di bloccare la vendita ai privati. In questa logica sarebbe stato naturale fermare le esportazioni. Eppure il 15 febbraio dalla Base di pronto intervento delle Nazioni Unite di Brindisi vengono caricate 18 tonnellate di materiale sanitario su un volo umanitario organizzato dalla Farnesina. Di quel quantitativo, 16 tonnellate hanno il bollino dell’Ambasciata cinese in Italia, quindi probabilmente non era materiale requisibile, ma le altre due tonnellate sono state “finanziate direttamente dalla Cooperazione italiana”.
C’era forse da aspettarselo considerando quanto indicato da Roberto Speranza nel verbale dell’11 febbraio. In quell’occasione ricordò che a Palazzo Chigi si era convenuto di prendere “iniziative di solidarietà nei confronti del popolo cinese”, tenuto conto delle “legittime ripercussioni economiche e dell’intrattenimento delle relazioni diplomatiche con la Cina”. Dunque, non avevamo mascherine sufficienti, sapevamo di essere in difficoltà anche per reperirle, ma abbiamo mandato 2 tonnellate di dispositivi medici in Cina, lasciando a secco l’Italia quando è stata travolta dal coronavirus.