Naftali Bennett – che salvo colpi di scena guiderà il nuovo Governo israeliano – è diventato un oggetto misterioso: anche per molti dei suoi concittadini. Giovane capo di gabinetto di “Re Bibi” Netanyahu, ne è oggi – apparentemente – l’accoltellatore shakespeariano. Un politico che neppure negli ultimi giorni ha rinnegato posizioni “più a destra” del premier uscente – a cominciare dall’eterno dossier palestinese – ha raccolto l’appoggio dei partiti arabo-israeliani. E questo all’indomani dell’ennesima “mini-guerra” a Gaza.
Proprio l’ultima “intemperanza” di Netanyahu – vistosi perduto nonostante la quarta “non sconfitta” al voto in due anni – ha suggerito ai pragmatici Usa di Joe Biden di far entrare in pista un cavallo nuovo e più giovane. Un cavallo per molti versi “americano”: ma in modo molto diverso da quanto lo sia stato “Bibi”, che pure un anno fa aveva festeggiato a Washington – ospite di Donald Trump – gli “accordi di Abramo”, apparente match-point sulla questione palestinese.
Bennett è nato 48 anni fa ad Haifa, la terza città del Paese. “Haifa lavora, Gerusalemme prega e Tel Aviv gioca alla politica”, dice un proverbio che era già popolare quando nel grande porto mediterraneo giunsero i genitori di Bennett: alla vigilia della guerra dei Sei giorni nel 1967. Venivano direttamente da San Francisco, dove Naftali ebbe comunque modo di vivere poi alcuni anni da bambino: quando nei sobborghi della città californiana prendeva forma la Silicon Valley. Nell’arco dell’età anagrafica di Bennett, la San Francisco Bay Area è diventata il cuore della globalità tecnologica, ma anche attorno ad Haifa e a Tel Aviv è nata una “valley” che insidia il primato di quella originale.
Israele è oggi un grande incubatore di ricerca scientifico-tecnologica a tutto campo (non solo nelle “computer science” ma anche nel bio-medicale). È un “Paese 4.0” che sta crescendo come megadistretto costiero – relativamente lontano dai tumulti dei colonizzatori nei Territori perché anzitutto può contare su un sistema finanziario fortemente integrato. Bennett è anzitutto figlio di questo mondo: e infatti i suoi avversari lo spregiano essenzialmente come “milionario”.
Dopo il tirocinio nelle forze d’élite dell’esercito – quasi d’obbligo per un futuro leader politico – Bennett ha infatti fondato, finanziato, gestito, portato in Borsa società tecnologiche: fra Manhattan e il nascente “Israele 4.0“; fra sistemi di difesa sulla Rete e sviluppo del cloud. Poi ha accumulato un cursus politico impressionante: negli ultimi otto anni è stato ministro dell’Economia, dell’Educazione, degli Affari religiosi, della Diaspora e infine della Difesa. Ma il partito con cui si è alla fine “messo in proprio” è piccolo come una start-up: Yasmina, all’ultimo voto, ha fatto eleggere solo 7 deputati alla Knesset.
Eppure il premier sarà lui: con gli “investitori” più disparati: partiti uniti però dalla volontà di “innovare”. Di progettare e lanciare sul mercato geopolitico un nuovo Israele. E non c’è dubbio che Bennett questo lavoro abbia dimostrato di saperlo fare: anche investendo su se stesso come futuro premier. Non si può dar torto, da i molti “disorientati”, dentro e fuori Israele: ma lo erano – e in parte lo restano – anche gli scettici su Elon Musk, che lavorava sull’auto elettrica ma nel frattempo progettava l’astronautica privata.
Forse neppure Bennett ha ancora chiara in testa l’idea di Israele che dovrà concretizzare. È probabile che punti sull’accelerazione dell’attrattività tecnologica e finanziaria globale del Paese per scuotere il contesto drammaticamente fossilizzato a Gaza e nella West Bank. Riserverà sicuramente sorprese: o, meglio, tutti se lo augurano. Certamente, come per ogni “startupper” purosangue, per Bennett la vita ricomincia sempre ogni mattina: sempre con la prospettiva che la giornata sia diversa dalla precedente, che offra nuove opportunità da esplorare. Forse chissà, potrebbe rivelarsi lui il primo di una serie di leader next generation.
Non sappiamo come governerà Israele. Sappiamo che è next generation.
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