Che cosa ci colpisce, che cosa ci lascia attoniti? La domanda viene spontanea di fronte all’immagine di Christian Eriksen lontano, laggiù sulla linea laterale del campo, immobile, forse esanime (e lo era, pare, per riportalo di qua sono occorsi tre massaggi cardiaci), il dramma incombente. Ci colpisce la fragilità, ma non solo quella del giocatore danese dell’Inter, bensì, attraverso la sua, la nostra, di tutti noi.
Perché questa è una situazione che ci aspettiamo da un essere umano come noi, un essere umano “normale” se mi passate il termine, uno che vive la sua vita di tutti giorni lontano dagli impianti di illuminazione degli stadi di calcio, lontano dai palcoscenici, lontano da questo Europeo 2020, con l’anno 2020 sul logo, un po’ per ricordare che era programmato dodici mesi fa, un po’ perché, forse, sarebbe stata una spesa enorme cambiare tutto quello che era già pronto.
Noi vediamo questi campioni, per qualcuno degli idoli, per tutti delle persone fuori dal comune, comunque, capaci di spostare i nostri sentimenti, di trasmettere emozioni, di avvicinarci o di scontrarci in quel modo di essere che si chiama tifo. Ecco, tutto questo li rende al di sopra, li sistema in una specie di Olimpo. Esattamente come gli dei greci, nei loro confronti c’è un misto di rispetto, dispetto, sfida, invidia, timore, esaltazione. Però predomina l’idea che loro vivano un’esistenza immortale, se non in generale certamente sulla loro nuvola che è il campo di calcio, la pista di atletica o il parquet del basket.
È per questo che di fronte a un giovane dio che crolla a terra e che rischia di morire non abbiamo parole, non troviamo risposte. Però, ed è questo che dovremmo poi trasportare nella vita di ogni giorno di tifosi, appassionati, amanti del calcio, ma anche di gente che il pallone lo segue distrattamente, questi drammi, nel caso di Eriksen solo sfiorato per fortuna, ci mostrano rari ma intensi momenti di solidarietà, di vicinanza, di rispetto. Ci stringono gli uni agli altri, ci fanno trovare parole e preghiere a volte dimenticate. Ci fanno spendere gesti significativi, ci regalano immagini da mandare a memoria. Simon Kjaer, decisivo nel cominciare la rianimazione di Eriksen, che abbraccia sua moglie Sabrina scesa in campo, quasi a proteggerla. I giocatori della Finlandia che se ne vanno, rispettosi, i compagni che piangono, impauriti per il destino dell’amico, il pubblico che capisce, prega, soffre, i messaggi che arrivano da parte di tutto il mondo. Di nuovo preghiere, incoraggiamenti, vicinanza. Sui social, la medaglia della modernità dalle due facce, Giano Bifronte, una potente, di comunicazione, di democrazia, di condivisione, una oscena, di prevaricazione, insulto, bullismo, in questi casi a prevalere è il senso di umanità, il pensiero della comune appartenenza alla razza umana, fragile di fronte al destino.
Oltre la paura, oltre il dolore, oltre la sofferenza, oltre il sollievo in questo caso, dovrebbe rimanerci il desiderio di vicinanza, dovrebbe resistere questo esserci avvicinati, stupiti dell’umanità del campione, l’umanità che siamo noi. Dovrei essere cinico, a questo punto. Invece dico che c’è speranza. Per Eriksen e per tutti noi.
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