A margine del dibattito sulla maturità, su cui ho promesso a me stessa che non scriverò più, e che è da considerare una piaga periodica come le cavallette di biblica memoria, vorrei fare qualche considerazione sul ruolo e le modalità della valutazione nelle istituzioni formative.
Partendo dalla coda, si può dire che se la “maturità” intesa come esame è un meccanismo macchinoso, costoso e inutile che non certifica nulla, per cui più che studiare l’ennesima riforma, bisognerebbe trovare il coraggio di sostituirla, la “maturità” intesa come obiettivo del percorso formativo, sia pure un obiettivo intermedio perché i ragazzi di 19-20 anni hanno di fronte larghi spazi di crescita, andrebbe in qualche modo certificata, direi anzi che questa certificazione è un preciso dovere della scuola, e misura insieme ai traguardi raggiunti dai ragazzi l’efficacia della scuola stessa. Il compito di definire e misurare/valutare la maturità non è certo facile, ed è fortemente legato al contesto, pur tuttavia vorrei riprendere un paio di considerazioni che mi sono parse interessanti.
Il primo spunto di riflessione mi è venuto dalla lettura di alcuni testi che considerano la capacità di valutare come una qualità della persona, e quindi come obiettivo educativo: i testi sono riferiti agli studenti universitari, ma mi pare che possano valere anche per la secondaria superiore. Per un adulto, la capacità di esprimere dei giudizi stabili e articolati è fondamentale (Battiato direbbe “Cerco un centro di gravità permanente / Che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose sulla gente”), e la capacità di valutazione – di sé stessi o dei pari, ma anche della scuola – non è innata, ma si può apprendere nello stesso modo in cui si sviluppano le altre capacità e conoscenze, ed è una delle tante competenze che gli insegnanti devono trasmettere.
Ma per farlo non bastano le parole, pena l’astrattezza, in quanto le sole parole raramente sono un rimedio per l’ignoranza: quella che conta è l’esempio, cioè la capacità degli insegnanti di valutare in modo corretto i loro studenti. Se i ragazzi venissero coinvolti attivamente nel processo di valutazione, se i criteri fossero più chiari, se gli elementi da misurare e gli obiettivi da raggiungere fossero comunicati e discussi, non solo la valutazione sarebbe più efficace, ma costituirebbe un elemento fondamentale nella certificazione finale della maturità personale.
Il criterio fondamentale potrebbe essere la verifica della capacità dei ragazzi di valutare la qualità della loro esperienza in modo olistico, e non (solamente) in base a schemi analitici: questo comprende anche l’autovalutazione, intesa come capacità di individuare e descrivere i propri limiti e i propri punti forti.
L’equilibrio fra olistico e analitico è difficile da raggiungere, e lo testimonia il dibattito, o forse meglio lo scontro, fra i “generalisti” e gli “analitici”, sostenitori dei voti o dei test, che li considerano migliori perché sono trasparenti, obiettivi, efficaci in quanto sono articolati su di una scala, e quindi forniscono informazioni (punteggi) sul punto preciso a cui un ragazzo è arrivato. In linea di massima, esiste uno standard per cui un voto segna la differenza fra positivo (promosso) e negativo (bocciato) e all’interno delle due grandi voci dei sommersi e dei salvati la scala va, o meglio andrebbe, da pessimo (zero) a ottimo (dieci, o sessanta, o cento). Non servono lunghe spiegazioni, argomentano gli analitici, e il voto fornisce oltre al confronto con lo standard un confronto con i pari: l’oggettività del test o del voto evita l’influenza dei gusti e delle preferenze degli insegnanti.
Chi sostiene invece una valutazione olistica, come potrebbe essere considerato il colloquio in cui consiste la maturità di quest’anno, sostiene che questa oggettività è solo apparente, e per quanto articolate e precise possono essere le procedure di attribuzione dei punteggi, per alcuni studenti, per esempio i cosiddetti Bes, esse portano a decisioni finali che per questi studenti sono palesemente ingiuste. Una valutazione olistica, argomentano i generalisti, non è un passo indietro verso la soggettività dei singoli insegnanti, ma un passo avanti verso un recupero del pieno significato dell’educazione, che richiede ai docenti la capacità di prendere in considerazione l’intera persona dello studente, mettendone in risalto le qualità al di là di una rilevazione nozionistica, che per qualche aspetto potrebbe anche essere insufficiente.
Questo tipo di approccio mi suggerisce di riprendere una proposta che riemerge periodicamente ma non è mai stata, almeno che io sappia, presa veramente in considerazione, il cosiddetto esame a due stadi. La “maturità” comporta certamente una valutazione in uscita sul solido possesso delle capacità di base: un corretto uso della lingua in forma scritta e orale, la capacità di comprensione di un testo, la capacità di argomentare su temi di carattere generale, la capacità di partecipare alla vita in senso lato e non solo alla scuola (il vituperato curricolo dello studente).
Noto, per inciso, che questi aspetti non dovrebbero essere presi in considerazione solo all’ultimo momento, ma verificati costantemente in modo da colmare per tempo le eventuali lacune. Da questo punto di vista, un esame analogo a quello di quest’anno (colloquio e curricolo), integrato da una verifica della capacità di articolare in forma scritta il proprio pensiero, potrebbe essere sufficiente ad attestare il completamento soddisfacente del percorso educativo (e se l’esito risultasse negativo, sarei favorevole a bocciare i docenti…).
Questo non significa disinteressarsi delle acquisizioni cognitive, che andrebbero accertate in entrata e non in uscita: a seconda del proseguimento che si sceglie, si selezionano alcune competenze cognitive di cui bisogna dimostrare il possesso o superando un esame di ingresso, o procurandosi l’attestazione da una delle agenzie autorizzate a farlo. È la logica inglese, per cui per iscriversi ad una facoltà bisogna avere specifiche credenziali di livello ordinario, e altre di livello avanzato: se saper leggere e scrivere è una competenza basica per tutte le facoltà universitarie (e a dire la verità anche per qualsiasi altro tipo di attività, tranne forse che per il ministro dell’Istruzione), chi intende diventare professore di lettere, o traduttore o giornalista, deve avere queste competenze a livello più elevato.
Analogamente, sarebbe bene che chi si iscrive ad una facoltà scientifica o tecnica possedesse alcune competenze specifiche più avanzate: i bilanci in entrata previsti dalle università, che poi dovrebbero provvedere a corsi di livello per chi è meno preparato, sono sostanzialmente poco utili anche dove vengono realizzati. Anche chi entrerà direttamente nel mondo del lavoro verrà valutato in ingresso, come del resto già avviene, anche se si apre la vexata quaestio del valore legale del titolo di studio, sul quale si dà per scontato quel che non è, e cioè che comporti l’acquisizione di determinate abilità, conoscenze e competenze.
Non c’è quindi ragione di opporre valutazione olistica e valutazione analitica: hanno piuttosto due obiettivi diversi, e dovrebbero essere compresenti, originando appunto un esame finale a due stadi, uno uguale per tutti e l’altro specializzato a secondo del proseguimento: questo potrebbe tra l’altro essere una soluzione alternativa ai test di ingresso, sistematicamente vituperati, modificati e ri-vituperati.
Che poi gli insegnanti siano in grado di metterle in pratica entrambe, e di renderle comprensibili ai ragazzi, questo è un altro discorso, e ritengo che la valutazione dovrebbe entrare in modo più esplicito a far parte del processo formativo degli insegnanti, iniziale e in servizio, ma temo che si incontrerebbero non poche difficoltà nel trovare i docenti. Anzi, forse si incontrerebbero non poche difficoltà nel trovare il processo formativo…
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