Era la fine di marzo quando i ministri Brunetta e Carfagna illustrarono le procedure per la selezione rapida, la “fast track”, di ben 2.800 persone e, addirittura, il cronoprogramma per garantire le assunzioni entro luglio. Erano cinque i profili tecnici richiesti: ingegneri, esperti gestionali, project manager del territorio, amministrativi giuridici e project data analyst. Si definivano, inoltre, le modalità “innovative” del concorso: una prima selezione sui titoli, un’unica prova digitale in più sedi decentrate, la pubblicazione delle graduatorie e assunzioni in tempi brevi seppure, è bene precisare, solamente a tempo determinato per un massimo di 36 mesi.
Una prima graduatoria di 8.400 candidati idonei sulla base dei titoli sarebbe dovuta essere già pronta per maggio, mentre la prova scritta, in modalità telematica e differenziata per i cinque profili, si sarebbe dovuta svolgere, quindi, a giugno. Le procedure si darebbero dovute concludere, quindi, entro 100 giorni dal bando, dunque entro il mese di luglio, con la pubblicazione delle graduatorie di vincitori e idonei e le assunzioni del personale. Qualcosa, probabilmente, non deve essere andato così “fast” come immaginato.
Infatti, in ragione della bassa partecipazione degli 8.582 candidati ammessi, inferiore al 65% in media e addirittura inferiore al 50% in alcune regioni, e dell’assoluta necessità di garantire l’interesse pubblico di vedere ricoperte tutte le 2.800 posizioni ricercate, il Ministero ha dovuto apportare una modifica al bando iniziale superando ed eliminando il limite originariamente fissato per l’ammissione alla prova scritta
Sarà così necessario un nuovo ciclo di selezioni per il “Concorso Sud” da cui sarebbe dovuta ripartire la pubblica amministrazione del dopo Covid.
Quali le ragioni di tale “fallimento”?
Probabilmente un contratto “dipendente” di tre anni è poco appetibile per profili “high skills” che sono, magari, più interessati a proposte consulenziali, si pensi a titolo esemplificativo alla rendicontazione dei programmi europei, più ricche e che permettono, in molti casi, di svolgere più attività contestualmente?
Allo stesso tempo permane in molte persone l’ambizione a lavorare nella Pubblica amministrazione principalmente per la possibilità di ottenere l’ambito “posto fisso” che non si lascia come ci hanno ricordato, solo pochi anni fa, Banfi e Zalone in un’intelligente commedia sui vizi italiani.
La Prima repubblica, insomma, dove “per un raffreddore gli davano quattro mesi alle terme di Abano” e “con un’unghia incarnita eri un invalido tutta la vita” probabilmente (fortunatamente) non tornerà più, ma il “mito” rischia, ahimè di continuare a vivere dentro di noi.
Per sconfiggere questo “virus” che viene dal passato non basta, in questo quadro, rendere le procedure fast e digitali. È necessaria, prima di tutto, una rivoluzione “culturale” che ci ricordi, come fa la nostra Costituzione Repubblicana, che i pubblici impiegati sono “al servizio esclusivo della Nazione” e che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”.
Solo da un rinnovato “orgoglio”, e onore, di servire il Paese passa la “rivoluzione” della Pubblica amministrazione e non, come probabilmente si è pensato, da procedure “fast”, digitali ed, astrattamente, efficienti.
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