Saman Abbas è una delle tante ragazze che chiedono aiuto ai servizi sociali perché il clima familiare è irrespirabile. Lo sa bene Liviana Marelli, che ha una lunga esperienza come assistente sociale, inoltre è responsabile nazionale area infanzia, adolescenti e famiglie del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca). «Se la persona è maggiorenne le possibilità di intervento ‘autoritativo’ sono pressoché nulle senza la sua volontà», spiega all’Avvenire. Infatti, Saman Abbas, essendo diventata nel frattempo maggiorenne, ha potuto fare ritorno a casa (nella speranza di potersi poi liberare della sua famiglia) senza che nessuno potesse impedirglielo. «Il servizio sociale – e in generale gli operatori dei servizi socioeducativi – può intervenire d’autorità, ma a seguito e in applicazione di un provvedimento dell’autorità giudiziaria». Altrimenti non può allontanare neppure un minorenne, a meno che non sia un caso urgente, di conclamato pericolo, quindi in applicazione dell’articolo 403 del Codice civile. «Anche in questo caso comunque il provvedimento di allontanamento urgente deve essere successivamente ratificato dalla magistratura minorile, come è giusto sia», spiega Marelli.
Ma quell’articolo vale appunto solo per i minorenni. Quindi, una ragazza maggiorenne da pochi giorni, non ancora adulta almeno dal punto di vista dell’equilibrio psicologico, per essere aiutata deve denunciare. «Siamo di fatto disarmati. Certo, si può darle tutte le informazioni possibili, sostenerla, indirizzarla, anche accompagnarla a sporgere denuncia, oppure a un ‘centro antiviolenza’ o in una ‘casa rifugio’ dove si può essere accolti anche senza denuncia, ma se l’interessata è d’accordo. Ma solo, ripeto, se lei lo vuole», spiega Liviana Marelli all’Avvenire. Non avendo funzioni di polizia, il servizio sociale non può intervenire neppure quando ci sono rischi di un possibile reato. Le stesse forze dell’ordine lo fanno solo in flagranza di reato o dopo denuncia. Quello che i servizi sociali possono fare è aiutare la persona a comprendere meglio i rischi del rientro a casa e a valutare progetti di avvio all’autonomia in contesti diversi dalla famiglia d’origine. Dunque, non ci sono strumenti per interventi più decisi.
SAMAN ABBAS, AIUTI “FRENATI” DALLA LEGGE
Quella di Saman Abbas è, dunque, una storia che si potrebbe sentire in moltissime famiglie poco agiate. Una vicenda (purtroppo) già sentita relativamente a molte famiglie provenienti dalla cultura musulmana. In altre parole, una situazione difficile per una ragazza di diciassette anni che desidera solo poter vivere la propria esistenza in pace. I suoi desideri: studiare, fare amicizia. I suoi vincoli al raggiungimento dei propri desideri: la mentalità e la cultura dei genitori. Amici e studio. Un desiderio per lei. Per loro (i genitori) , parole che nel proprio ambiente culturale sono suonate come irricevibili. Cosa fare dunque in una situazione come questa quando si ha 17 anni e si vuole cambiare, si vuole evolversi o in altri termini si vuole vivere la propria vita e costruirsi un futuro? Si scappa. E lei, Saman, lo fa. Infatti scappa e va in comunità. Poi però, ritorna a casa, per via dei legami mentali che la condizionano. È qui che Liviana Marelli pone l’accento circa l’impossibilità di agire sulla situazione di una ragazza, solo perché maggiorenne, limiti notevolmente l’autorità delle comunità stesse. Può un ente nato per aiutare fermarsi di fronte alla maggiore età?
SAMAN ABBAS, OGGI LA TESTIMONIANZA DEL FRATELLO
Intanto oggi è prevista la testimonianza del fratellino minorenne, che ha già raccontato che la sorella è stata strangolata. Il ragazzo, che ora si trova al sicuro, messo in protezione all’interno di una struttura bolognese, avrebbe infatti dichiarato durante gli interrogatori condotti durante le indagini: “È stato lo Zio Danish, strangolandola a toglierle la vita. È stato lui e l’ha uccisa così”. Laura Galli, coordinatrice delle indagini accolte peraltro dal Gip, basa su queste dichiarazioni la ricostruzione le indagini da lei stessa sostenuta. Il minorenne, che come anticipato descrive la scena accusando lo zio Danish, sembra non lasciar adito ad alcun dubbio circa il delitto.
La relazione “fattuale” fra lo zio Danish ed i nipoti, supera i legami di sangue. Quello che potrebbe essere stato solo un classico legame legato alla parentela di sangue infatti, viene corroborato non solo dalle dichiarazioni del minore dei tre, il fratello di Saman Abbas, ma anche dai dati circa gli ingressi portuali/aeroportuali. Le liste d’imbarco di Milano Malpensa, la cui testimoniaza scritta viene confermata dalle telecamere di sicurezza dell’aereoporto, riprendono chiaramente gli attori citati nelle indagini. In altre parole non vi sono dubbi che i tre (zio e i due nipoti) fossero assieme nel momento in cui veniva consumato il delitto. Ma c’è di più. Ad accompagnare il trentatreenne Danish, accusato del delitto,vi sarebbe anche un’altra persona, il cugino trentacinquenne Nomanhulaq Nomanhulaq. Entrambi i soggetti, tanto lo zio Danish quanto il cugino Nomanhulaq Nomanhulaq, sono risultati ricercati niente di meno che dai Servizi di Cooperazione Internazionale in Europa, che cercherebbe anche un loro parente, il cugino Ikram ljaz, il 28enne unico arrestato della vicenda e che ora è in carcere a Reggio Emilia dopo essere stato fermato a Nimes, in Francia, mentre tentava di raggiungere alcuni parenti in Spagna, a bordo di un Flixbus diretto a Barcellona. Ikram Ijaz ha dichiarato di essere «estraneo alla vicenda».