Un italiano del giugno 1941 avrebbe potuto pensare che la guerra, che ormai durava da un anno, fosse ormai vicina alla fine con la vittoria dell’Asse. Era vero che l’Italia aveva subìto una disastrosa sconfitta in Libia, ma si era ripresa grazie all’intervento di poche ma formidabili divisioni tedesche, comandate da un genio tattico (e mediocre stratega) come Erwin Rommel. L’impero d’Etiopia era ormai perduto e solo pochi capisaldi continuavano a resistere eroicamente ma, a guerra vinta, era certo che gli italiani sarebbe tornati in Abissinia da trionfatori. Nel frattempo, tuttavia, i prezzi dei beni al consumo continuavano a salire vertiginosamente. Il burro costava 44 lire al chilo, le mele 6,50, le arance 5,90 e le ciliegie 10 lire. Per avere un confronto si pensi che le mogli dei richiamati riscuotevano 8 lire al giorno più 3 per ogni figlio (da Arrigo Petacco, 1941. Giorno per giorno attraverso i bollettini del comando supremo, Leonardo 1990).
Quello che gli italiani non potevano sapere, eccetto una ristretta minoranza di militari intelligenti e informati, era che il fascismo aveva già perso la guerra e che il fallimento, eclatante nelle disfatte militari, era ancora più profondo e disperante nell’organizzazione delle forze armate tenendo conto delle quattro branche dell’arte militare. Strategia, tattica, organica e logistica: un disastro totale. Soccorre qui la spietata analisi di Giorgio Rochat in Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta (Einaudi 2005). Il grande storico militare piemontese fa capire come la strategia di Mussolini con l’attacco alla Grecia e alla Jugoslavia aveva portato all’impiego nei Balcani di ben 600mila uomini e l’impero fosse stato perduto con altre centinaia di migliaia di prigionieri; la tattica dell’esercito, dell’aviazione e della marina italiane era primitiva, dispendiosa, confusa, basata sul coraggio, sul vacuo mito dannunziano del “sufficit animus” che, nella Grande guerra, poteva ancora avere un senso ma certamente era da imbecilli perpetuare nel 1940; l’organico dell’esercito era così tragicamente ridicolo che 1.200.000 uomini erano dislocati all’estero, senza cambi, senza licenze, in condizioni estreme e ben due milioni di militari (fedeli alla tradizione dell’“imboscamento”) si trovavano in Italia con la stessa paga a far letteralmente nulla, per non parlare del tasso di mobilitazione, di gran lunga inferiore a quello dell’Italia del ’15-18. Sulla logistica il velo pietoso è d’obbligo, si pensi che tutto ciò era causato da un fatto paradossale: la sudditanza del regime nei confronti degli industriali, di Fiat e Ansaldo che vendevano allo Stato mezzi militari di scarso valore, rifiutandosi di migliorarli per contenere i costi. Ben diversa tempra aveva avuto il generale Dallolio nella Prima guerra mondiale organizzando una rete di produzione eccellente e imponendo la volontà del governo agli industriali.
Su queste pagine è già stato detto che se un governo democratico fosse stato così incapace si sarebbe dovuto dimettere, com’era accaduto a quelli francesi di Daladier e di Reynaud o al governo Chamberlain cui succedette Winston Churchill: e, si badi, anche con la possibilità di cambiare politica e di uscire dalla guerra, come appunto fece la Francia nel 1940. E allora perché i fascisti di ieri (e di oggi) pensavano di dovere fedeltà a un monumentale fallito come Mussolini? perché un dittatore deve godere di uno stato di intangibilità superiore a quello di un governante democraticamente eletto?
La risposta degli italiani di allora era semplice: c’era la guerra e bisognava andare avanti sino in fondo. Eppure i fedelissimi dell’Asse di ieri e di oggi sarebbero stati smentiti dal Duce stesso che, in uno dei suoi ricorrenti scatti d’ira contro Hitler disse a Ciano il 10 giugno 1941 a proposito delle prepotenze tedesche: “io intanto continuo le fortificazioni del Vallo Alpino. Un giorno serviranno. Per il momento non c’è niente da fare. Bisogna urlare coi lupi. Ed è così che oggi alla Camera farò una sviolinata alla Germania. Ma il mio cuore è pieno di amaro”.
Pochi giorni dopo, il 22 giugno 1941, la Germania attaccava l’Unione Sovietica. Tutti in Europa sapevano che l’attacco era imminente: lo sapevano Ciano e Mussolini, lo sapevano persino i governanti ungheresi. Solo Stalin si ostinava a sperare che la Wehrmacht non facesse a pezzi l’Armata Rossa. La Russia pagava, così, molto caro l’avventurismo di Stalin che, conquistando mezza Polonia e i Paesi baltici, aveva posto i propri confini a contatto diretto col suo nemico più micidiale.
Ma in quell’estate del 1941 la Germania era invitta e invincibile e Mussolini tanto fece e tanto brigò che riuscì a inviare tre divisioni in Russia: una, la 3a divisione Celere “Amedeo d’Aosta”, era effettivamente dotata di mezzi di locomozione. Le altre due, la 52a “Torino” e la 9a “Pasubio”, erano “autotrasportabili” (sic!), nel senso che se ci fossero stati degli autocarri avrebbero anche potuto salirci sopra. Ma di autocarri nemmeno un bullone e così i fanti si dovettero trasportare sui propri piedi insieme alle artiglierie più moderne di cui si sentiva un bisogno disperato in Libia nell’assedio di Tobruk. Questa era l’Italia, questo il regime fascista. Nel caso qualcuno se lo sia dimenticato.
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