Oggi ci vuole molto coraggio a parlare di morte. Soprattutto quando di anni se ne compiono ottanta e in circolazione ci sono ottantenni che parlano come se fossero cinquantenni. Riccardo Muti però lo fa e confessa senza ritegno a Aldo Cazzullo (Corriere della Sera) di essere stanco della vita.
Compirà 80 anni il prossimo 28 luglio ma non parla delle sue prossime esecuzioni o di nuovi progetti professionali, come farebbero altri, ma della morte. Della sua morte. Addirittura, per essere precisi, dei suoi funerali. “Ai miei funerali non voglio applausi – dice – sono cresciuto in un mondo in cui ai funerali c’era un silenzio terrificante. Ognuno era chiuso nel suo vero o falso dolore. Quando sarà il mio turno, vorrei che ci fosse il silenzio assoluto. Se qualcuno applaude, giuro che torno a disturbarlo di notte, nei momenti più intimi”. Un funerale senza applausi è qualcosa d’impensabile al giorno d’oggi e, francamente, mi sentirei molto a disagio se dovessi chiedere in quell’occasione ai presenti di stare solo in una preghiera silenziosa: anche se è giusto rispettare le intenzioni degli altri, soprattutto quando costoro sono i morti per i quali si prega.
Muti crede sia venuto il momento di lasciare questo mondo perché non trova più in esso quella serietà che è stata l’anima della sua vita. Nell’intervista spazia da quando bambino imparò il latino grazie alle tirate d’orecchio dei professori, fino alla gestulità di Toscanini le cui braccia e le cui mani erano il prolungamento della mente e del cuore: non come avviene a certi giovani direttori d’orchestra di oggi che, afferma, “usano il podio per gesticolazioni eccessive, da show, cercando di colpire un pubblico più incline a ciò che vede e meno a ciò che sente”.
Devo dire che il Riccardo Muti del Corriere della Sera e di Aldo Cazzullo non corrisponde del tutto all’idea che mi ero fatto di lui. Persona serissima, certamente, ma anche aperta alla speranza, alla gioia, come quei grandi alberi frondosi sotto i quali, al termine della vita, i giovani possono riposare apprezzando con calma la mansuetudine forte che promana da quelle fronde. Per i suoi settant’anni Muti aveva dichiarato ad Avvenire di avere una serie fede cristiana, una spiritualità serena senza essere sdolcinata. “Mi ha sostenuto il senso della speranza che mi hanno trasmesso i miei genitori educandomi nella fede cattolica – aveva dichiarato al quotidiano della Cei –. Sapere di una vita oltre la morte che, certo, ignoro come potrà essere, mi fa guardare con serenità al presente. Me lo ha insegnato la fede. E anche la musica perché quando dirigo un Requiem, di Mozart, di Cherubini o di Verdi, quelle note mi trasportano oltre, nella dimensione dello Spirito”.
Un po’ di questo Muti si ritrova nell’intervista del Corriere, quando il grande direttore d’orchestra ricorda con parole toccanti la madre Gilda; oppure in un punto molto umile quando il maestro dice di non pretendere che il mondo si adegui alle sue esigenze. E qui possiamo imparare da lui: se tutti avessimo la medesima prospettiva potremmo vedere maggiormente la vita non come percorso in cui proiettare i nostri desideri, ma come itinerario dove servire il prossimo con le nostre capacità. Mi chiedo però se nella decade tra i settant’anni e gli ottanta nel maestro sia cambiato qualcosa o se la diversità dipenda dallo sguardo dell’intervistatore.
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