Rimini, 12 dicembre 1998, sabato sera. Circa ottomila studenti universitari si sono radunati, in quel fine-settimana, per vivere gli esercizi spirituali del Clu (Comunione e liberazione universitari). Il “relatore” esordisce così, in modo schietto e senza fronzoli: “Tutte le volte che mi chiedono di parlare della mia esperienza, il primo sentimento che ho è quello di tirarmi indietro perché, non so voi cosa ne pensiate, è difficile parlare in pubblico, senza barare, delle cose che si amano di più. E questa vita è la cosa che io amo di più in assoluto”.
Tra il chirurgo, che ha appena pronunciato queste parole e che si appresta a raccontare ciò che nella vita ha di più caro, e quei ragazzi si genera un’istantanea e sorprendente simpatia umana, nasce immediatamente un’attrattiva piena di ammirazione e di stupore, qualcosa di molto simile a quelle “manate di colla” con cui don Giussani mirabilmente descriveva la forza dell’affetto che legava Pietro a Gesù Cristo. Così nell’auditorium della vecchia fiera di Rimini c’è, nel senso più vero dell’espressione, un silenzio religioso, perché tutti gli sguardi convergono verso un punto, verso quell’uomo che parla e che, in meno di trenta secondi, ha già calamitato tutta la nostra attenzione. Perché? Per la febbre di vita e l’unità di vita che, incontenibili, sgorgavano da quell’uomo e dalle sue parole.
Questa pienezza di vita è raccontata nel libro (uscito da pochissime settimane e già in ristampa) di Marco Bardazzi intitolato Ho fatto tutto per essere felice. Enzo Piccinini, storia di un insolito chirurgo (Bur, 2021). Questo bellissimo libro, scritto in occasione dei settant’anni dalla nascita del suo protagonista, ha il merito di andare alle radici da cui è fiorita l’esistenza di Piccinini e di raccontare tutta la vita che Enzo, con la sua vita, ha generato.
Qui occorre subito un nota bene: questo libro non è una celebrazione delle imprese di Enzo e nemmeno una sua proto-agiografia, per quanto nel 2020 l’arcivescovo di Modena, vista la crescente fama di santità del Servo di beatificazione e canonizzazione. Questo libro è il racconto di come la vita di un uomo possa essere tutta “strumento di un miracolo”. E queste ultime non sono parole casuali, perché sono parte di una frase rivoltagli da don Giussani al termine di un complicatissimo e interminabile intervento chirurgico che Piccinini era riuscito a portare a termine con successo: una frase “che Enzo avrebbe tenuto sempre in mente: ‘Grazie per essere stato strumento di un miracolo’”.
Nella sua testimonianza agli universitari a Rimini, Enzo commentava così quell’espressione di Giussani: “Ecco, guardate ragazzi, questa è la posizione giusta nella vita, perché non potevo nemmeno insuperbirmi per tutto quello che avevo fatto. ‘Strumento di un miracolo’ vuol dire che io non ho fatto niente. Se questa è la posizione nella vita, scusatemi, ma che paura si ha più? Che cosa ci può fermare?”.
E piena di miracoli, cioè di segni della presenza di Dio impossibili da programmare a tavolino, è stata anche la vita di Enzo. Bardazzi racconta tre svolte decisive che segnarono in modo indelebile la vita di Piccinini: l’incontro con quello che sarebbe diventato il movimento di Cl, la scelta universitaria e professionale e poi quella di sposarsi e avere una famiglia.
La prima avviene nel 1970. Enzo, dopo la maturità classica sostenuta ad Ancona, torna a Reggio Emilia. In quegli anni si è allontanato dalla fede ricevuta da bambino e, nella ricerca di un ideale grande a cui dedicare l’esistenza, si avvicina ad un gruppo di giovani che frequentano un appartamento in centro città: a capo di quei giovani c’è un ragazzo poco più che ventenne di nome Alberto Franceschini e da quelle quattro mura in via Emilia san Pietro nasce uno dei primi nuclei di giovani che darà poi vita alla lotta armata. Enzo avrebbe potuto essere uno di loro ma, nelle sue giornate all’appartamento, incontra alcuni ragazzi che partecipano ad un gruppo chiamato One Way. Si tratta di un gruppo di amici guidato da Giovanni Riva, un ex seminarista che aveva portato a Reggio Emilia l’esperienza di fede conosciuta a Milano attraverso l’amicizia con don Luigi Giussani. C’è qualcosa in quel gruppo di giovani che lo attrae più della proposta marxista e così dall’appartamento alla cripta del Duomo, dove quelli di One Way si trovano a recitare i vespri, il passo è geograficamente breve (poco più di cinquecento metri) ma, per Enzo, tremendamente serio, perché non si tratta semplicemente di cambiare casacca ma di scegliere ciò che veramente dà valore e gusto a tutta la vita. Si tratta di scegliere chi è il vero rivoluzionario capace di cambiare la vita degli uomini: “tra Marx e Cristo, il ‘capopopolo’ Piccinini aveva scelto Cristo proprio nel momento in cui tanti, anche nella Chiesa, andavano dall’altra parte”.
In questo senso è emblematico un episodio che riguarda il primo periodo degli studi universitari di Enzo. I suoi amici di prima spesso lo schernivano accusandolo di avere dimenticato le battaglie vere (erano gli anni della guerra in Vietnam) e di aver invece scelto di chiudersi in un angolo a pregare. “Vedevano” – racconterà anni dopo Enzo – “che ero debole proprio nelle ragioni. Io stavo malissimo, non riuscivo a rispondere; a un certo punto mi è venuta l’idea e ho detto loro: ‘Io per il Vietnam costruisco la Chiesa, qui’. Non lo scorderò più: questa è la verità della questione”.
In quella risposta a bruciapelo ci sono tutta l’intelligenza e il cuore di Piccinini risvegliati dall’annuncio cristiano, perché quel “qui” in cui costruire la Chiesa si declinerà poi attraverso le svolte della sua vita: dalle sale operatorie dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna, alla famiglia costruita con la moglie Fiorisa fino alla responsabilità delle tante comunità del movimento di Cl che a lui saranno affidate.
L’esperienza professionale di Enzo è una parte essenziale della sua vita e Bardazzi descrive attraverso aneddoti, testimonianze e documenti (alcuni inediti come le commoventi lettere scritte alla moglie Fiorisa) il percorso umano e lavorativo del chirurgo Piccinini: il trasferimento a Bologna, poi i soggiorni negli Stati Uniti per apprendere le tecniche operatorie più all’avanguardia, la creazione del suo team di lavoro all’ospedale Sant’Orsola e la grande passione per i libri e per la ricerca accademica, una passione che l’avrebbe condotto ad intuire con l’occhio del grande precursore alcuni nuovi sviluppi e orizzonti della ricerca medica. A fungere da comune denominatore di questo viaggio era l’approfondirsi continuo di quello che aveva intuito fin dal primo incontro con il gruppo di One Way: “per essere felice, e quindi per vivere ‘quell’unità della persona’di cui parlava sempre più spesso, doveva anche fare tutto quello che poteva per migliorare la propria professionalità”. C’è una frase tratta dalle Lettere sul dolore di Mounier che ha sempre accompagnato le scelte di Enzo: “Non c’è niente di più anticristiano di chi cerca di mettersi a posto la vita”. Per questa ragione il dottor Piccinini voleva fare al meglio il suo lavoro perché era l’unico modo per rispondere fino in fondo alla sua vocazione. “Voleva stare di fronte al malato, al dolore, alla morte, mettendoci tutto quello che lui stesso riassumeva con la parola ‘cuore’: l’esigenza, come ripeteva Enzo, di vero, di bello, di giusto, di amare ed essere riamati”.
Da questa umanità vissuta senza sconti nasce quello che Bardazzi chiama il “metodo Enzo”: un metodo che indicherà la strada da seguire a tutti i suoi allievi e che è composto di alcuni fattori indispensabili: la miglior preparazione tecnica possibile, un’analisi scrupolosa dei dati perché è dal dato reale che si parte sempre, l’attenzione totale al paziente che deve essere sempre accompagnato durante la malattia davanti al mistero della vita e a quello della morte e, last but not the least, non essere mai soli perché da soli, cioè senza appartenere ad una vita, a dei volti e ad una storia, non ce la si fa.
E qui c’è uno dei passaggi più significativi del libro di Bardazzi, ed è un passo che vale la pena riportare: “Il punto di forza del ‘metodo Enzo’ era dunque affettivo. Per vivere un’unità della persona tra lavoro, famiglia, amicizie e svago e per mettere sempre il cuore in quello che faceva, aveva bisogno di sentirsi amato. […] Il suo centro affettivo aveva un nome e un volto: Luigi Giussani”. Bardazzi delinea con precisione questo rapporto di figliolanza tra il chirurgo modenese e il sacerdote brianzolo: la continua disponibilità di Piccinini a farsi correggere anche in modo netto da Giussani, il suo incessante bisogno di confronto con lui fecero maturare in Enzo un’obbedienza così sincera che lo rese capace non solo di accettare i propri limiti ma di giungere alla consapevolezza che andiamo bene tout court, così come siamo. Sempre a Rimini, Enzo non perde l’occasione di sottolineare quanto queste scoperte non fossero un suo merito ma il frutto della sua amicizia con Giussani, dal quale spesso si lasciava incalzare senza sosta nei tanti dialoghi avuti in macchina con lui: “‘Perché hai paura del tuo temperamento? Se Dio ti ha fatto così, tu servi con quello che sei! Perché devi avere paura del tuo temperamento?’ È stata un’altra liberazione” – ricorda Enzo – “perché io mi penso sempre come sono, istintivo e violento”.
La profondità di questo legame emerge in tutta la sua potenza nel messaggio inviato da don Giussani a tutti i gruppi di Comunione e liberazione poche ore dopo la salita al Cielo di Enzo, avvenuta il 26 maggio 1999 in un tragico incidente stradale: “Enzo fu un uomo che, dall’intuizione avuta in dialogo con me 30 anni fa, disse il suo ‘sì’ a Cristo con una stupefacente dedizione, intelligente e integrale come prospettiva, e rese la sua vita tutta tesa a Cristo e alla sua Chiesa. La cosa più impressionante per me è che la sua adesione a Cristo fu così totalizzante che non c’era più giorno che non cercasse in ogni modo la gloria umana di Cristo”.
Un’indomabile passione per la gloria umana di Cristo è l’eredità che Enzo ha lasciato in quelli che, poco o tanto, si sono imbattuti in lui. Il libro di Bardazzi ne offre numerosi esempi che certificano, per la loro diversità, la capacità di Piccinini di ridestare la creatività di tante delle persone che incontrava. E, in fondo, questa è l’eredità di Enzo Piccinini che può lasciare anche la lettura di questo libro dedicato alla sua vita. In questo nostro tempo così drammatico c’è bisogno di volti sui quali sia impressa una speranza, la speranza che quell’esigenza di felicità, che è indomabile perché è strutturale in noi, è destinata ad avere risposta. Enzo amava la vita perché riconosceva che c’era Qualcuno che rendeva ogni aspetto della realtà, ogni circostanza piena di significato e dunque degna di essere vissuta e amata. Ecco perché, in un sabato sera di dicembre, quegli ottomila studenti universitari erano rimasti ad ascoltarlo in un silenzio e con una attenzione quasi sacrale, perché non c’era niente di più umanamente convincente e affascinante di quella passione per la vita che debordava da ogni suo gesto.
Così, per chiunque lo legga, questo libro può essere un’occasione per scoprire oggi quello che gli studenti universitari a Rimini videro accadere davanti ai loro occhi oltre vent’anni fa: “che il gusto della vita non è negato a chi sbaglia: è negato a chi non ha un senso di Mistero nella propria vita, cioè di qualcosa di più grande, presente, una compagnia a cui appartenere. Un gruppo, un’amicizia vera”.
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