Sempre più fioca, la luce del giorno che muore filtra a illuminare la stanza, la tavola grande e i tredici attorno. A una a una, piccole stelle luminose brillano in cima alle candele, a combattere la battaglia diuturna della luce e delle tenebre. È la Pasqua ebraica, il giorno solenne che ricorda il passaggio dalla schiavitù alla libertà.
Il Maestro li ha voluti tutti intorno, mentre ancora echeggiano nelle loro menti le grida di giubilo della folla: “Osanna al figlio di David! Benedetto il re di Israele!”. Era solo pochi giorni innanzi e sembrava tutto possibile, quel giorno. Il giogo romano stava per terminare? Era davvero quell’uomo il Messia che il popolo attendeva da secoli? La liberazione era dunque vicina?
Uno strano Messia: a dorso d’asino era entrato in Gerusalemme, cavalcatura di re – certo – ma di re pacifico. Eppure in molti lo volevano morto. E ora? Cosa attendersi da un uomo che aveva aperto gli occhi ai ciechi, sfidato i sacerdoti con parole taglienti, scacciato i demoni e resuscitato cadaveri? C’era un piano segreto che stava per essere svelato solo a loro, ai dodici della prima ora?
Poi, il Maestro si alza. Depone le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinge attorno alla vita. Versa dell’acqua nel catino e comincia a lavare i piedi dei suoi discepoli. Le bocche si aprono, i piedi non sanno se ritrarsi o lasciarsi carezzare. Le sue mani… Quelle mani prendono i piedi grossi e gonfi, di pescatori e cambiavalute, e li lavano a uno a uno, li asciugano con l’asciugatoio di cui si era cinto.
Lungo il semicerchio dei divani, disposti a raggiera rispetto alla tavola, giunge Gesù di Nazareth da Simon Pietro, il discepolo focoso. E questi gli dice: “Signore, tu lavi i piedi a me?”. Risponde Gesù: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci, ma lo capirai dopo”. Gli risponde d’impulso Simone, ritraendosi di scatto: “Non mi laverai mai i piedi!”. Ma il Maestro lo guarda negli occhi, e gli parla: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. “Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!”, esclama Pietro. E il Maestro disse: “Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto mondo; e voi siete mondi, ma non tutti”. Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: “Non tutti siete mondi”.
Il seguito è noto. Meno noto è che da quell’acqua pura, divenuta sporca in breve tempo, sarebbe scaturita mille anni dopo un’eresia devastante, che avrebbe messo in ginocchio la Chiesa sorta dal resto di quei dodici, e che l’avrebbe spinta a por mano alla spada, anche se il Maestro aveva detto loro di riporla nel fodero – e a Pietro in primis, naturalmente, a chi altri?
Il fatto è che l’italiano “mondi” traduce il latino mundi, cioè “lavati”, senz’altro, ma nel senso di “senza macchia” ovvero “puri”. Ciò che gravita attorno a quei piedi e a quell’acqua non è solo e non tanto un rito quotidiano riservato ai servi – quanta teologia dell’obbedienza e della parvulanza, in quel gesto, quanta imitazione di Cristo nel farsi piccoli e umili, nel divenire servi sull’esempio del Maestro – quanto piuttosto una compartecipazione alla purezza di Dio.
Questa dimensione teologica, più profonda e radicale, è chiara nel dettato greco: giacché il mundi latino traduce il catharói greco. “Puri”, appunto. Ma chi è Puro, se non Dio?
Tra XI e XIII secolo si diffuse in Europa un’eresia cristiana – ma dovremo chiederci se di eresia davvero si trattasse, o di altro – che sfidava la Chiesa del tempo sul nucleo centrale del Credo cristiano: chi è puro in realtà? Chi mangia e beve il corpo e il sangue di Cristo, l’Eucarestia, istituita poco dopo la lavanda dei piedi? O chi, in altra forma, è mondato da Dio?
Ancora oggi, la maggior parte dei commentatori non coglie il senso profondo di quel termine greco tradotto in lingua volgare: catari.
Certo, a sviare gli eruditi ci ha pensato un grande autore del XII secolo, Alano di Lilla, secondo il quale la parola sarebbe derivata da catus, “gatto”, per via della prassi “catara” di baciare le terga di un gatto – simbolo tradizionale del diavolo – durante le loro riunioni. Era un’interpretazione chiaramente spregiativa e demonizzatrice, che peraltro non esaurì i tentativi di parte “ortodossa” di nominare e reificare quei gruppi di “eretici” che pullulavano con crescente forza e conseguente timore da parte della cristianità del tempo. Così, manichei, ariani, patarini e altri ancora furono i nomi che vennero proposti per identificare e, in qualche modo, razionalizzare un fenomeno che sembrava tanto vasto quanto antico, multiforme eppure unitario.
Anche l’immagine delle “piccole volpi” che devastano la vigna del Signore (Ct 2,15) servì – insieme ad altre – a far confluire la condanna e il rigetto per queste devianze in un comune e accomunante pericolo per la Chiesa tutta, dal momento che le code di quelle vulpecolae (ma accanto ai catari vanno in questo senso ricordate anche altre “eresie”, a cominciare da quella valdese) si sarebbero unite insieme appunto con intenti devastatori dell’unica, ortodossa e quindi cattolica, Chiesa di Cristo, quella romana.
Aveva invece ben colto l’origine del nome il canonico Ecberto di Schönau, che in un sermone aveva rinviato alla sua etimologia: catharos, id est puros. Gli eruditi esistevano anche allora, del resto, ma il senso vero e profondo era appunto evangelico, e a quello dobbiamo tornare per capire il groviglio di sfida e paura, repulsione e odio radicale che quella parola fu capace di scatenare da una parte e dall’altra.
Insomma, auto-nominandosi “catari” quegli uomini e quelle donne si auto-definivano “puri”, cioè “divini”, “santi”, “beati” – termini che nel Vangelo di Giovanni da cui abbiamo attinto sopra (Gv 13,2-17) sono subito collegati con la lavanda dei piedi.
E, nel far ciò, essi tiravano una linea di demarcazione netta, nettissima tra sé e il “mondo”, tra il loro essere “luce” e le “tenebre” tutte intorno, a cominciare proprio dalla Chiesa cattolica e romana che, sempre da quella ultima cena con il Maestro, aveva di fatto mosso i primi passi.
Era uno scontro frontale, un innalzare se stessi che aveva, come necessaria contropartita, un condannare gli altri. “Perfetti” – perfecti, in latino – erano infatti indicati i sacerdoti posti a capo di quella contro-Chiesa – o, se si sposa la loro prospettiva, della vera-Chiesa. E cosa è la “perfezione” se non caratteristica assoluta del divino?
E non era ancora tutto, perché quegli stessi uomini si definivano anche boni homines e boni christiani, cioè “uomini buoni, cristiani buoni”, e non tanto nel senso laico di “affidabili”, come pure si usava all’epoca, ma proprio nel senso teologico di Bonum, ovvero “Bontà” e “Bene assoluto”.
(1 – continua)
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