Quanto sta accadendo nel M5s può stupire solo coloro che si erano illusi che questo movimento fosse una cosa seria, o comunque destinato a trasformarsi in un partito normalizzato con il quale aprire un confronto per costruire su basi più solide l’offerta politica italiana.
Esaurito il budget delle proposte demagogiche spendibili, la messa in campo del reddito di cittadinanza e della sottrazione dei vitalizi per le vedove degli ex parlamentari, e dimezzato nei consensi nel corso dei tre anni di esperienza di governo, il problema principale per il numeroso gruppo degli eletti del M5s è diventato quello di sopravvivere per l’intera legislatura e di posizionarsi in vista di una drastica riduzione del numero degli eletti.
Una buona mano l’ha offerta il Pd, mettendo sullo sfondo del nascente governo giallo-rosso la prospettiva di una alleanza organica del centrosinistra e l’elezione del Presidente della Repubblica destinata a condizionare gli equilibri politici della prossima legislatura. Colta al balzo da Beppe Grillo, ha comportato in parallelo l’avvio del processo di normalizzazione, una perdita significativa dei consensi elettorali e l’esodo di un consistente numero di parlamentari.
Con l’avvento del governo Draghi, il garante supremo del M5s ha tentato di ripetere il bis, cercando di capitalizzare la popolarità dell’ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, dirottando l’interessato alla guida del Movimento. La mossa è stata interpretata dal beneficiato come un mandato a completare il processo di normalizzazione e la trasformazione del Movimento in un partito strutturato, con l’inevitabile conseguenza di sottrarre al capo comico la gestione del palinsesto.
Questa è la vera ragione di fondo che rende insanabile la frattura del Movimento, ma anche la chiusura formale di un ciclo politico, che mette nell’angolo l’intera strategia del Partito democratico. Quella che lo ha visto liquidare definitivamente, gruppi dirigenti compresi, l’obiettivo del partito a vocazione maggioritaria. Per sostituirlo con la costruzione di un inedito centrosinistra fondato sull’alleanza organica con il M5s e sostenuto da una legge elettorale proporzionale. La cosa più incredibile, e che meriterebbe una spiegazione, sono i toni persino ossessivi, e a dispetto dei santi (l’aumento delle tensioni nel M5s), volti a riconfermare questa scelta dopo l’insediamento del governo Draghi.
Mi ero permesso di evidenziare, in tempi non sospetti, che la nascita del governo giallo-rosso rappresentava non solo la ciambella di salvataggio per il M5s, ma offriva al Pd, soprattutto all’area della sinistra interna, l’occasione per riportare in auge le derive giustizialiste e ideologiche che hanno contribuito ai fallimenti della Seconda Repubblica e preparato l’avvento di quelle populiste, che hanno assunto un’intensità e caratteristiche che non trovano riscontri in altri paesi europei. In buona sostanza, la realizzazione di una convergenza di interessi diversi rivolti a far sopravvivere le rispettive rendite di posizione e, per lo specifico del Pd, per evitare di fare i conti con il passato. Un’intesa corredata dall’affidamento di tutte le deleghe ad esponenti del Pd per la gestione delle relazioni con l’Europa, alla formazione di una nuova corrente della magistratura dove far convergere i rispettivi magistrati di riferimento e al mantenimento delle politiche economiche stataliste e assistenzialiste.
A distanza di due anni e di una pandemia che ha sconvolto paradigmi e comportamenti in campo economico e sociale, rimettendo al centro l’importanza delle competenze, degli approcci scientifici e delle organizzazioni efficienti, il divario tra le vecchie traiettorie politiche, comprese quelle delle forze del centrodestra, e la realtà si è ulteriormente ampliato. Con l’entrata in campo del partito di Conte, il Pd si ritrova un pericoloso concorrente nella potenziale area di riferimento elettorale, e che in parallelo spingerà coloro che rimangono nei 5 Stelle nell’alveo delle opposizioni destinate a cavalcare il malessere sociale.
Uno scenario destinato ad avere conseguenze nel Pd e nell’intero arco delle forze politiche. Nel post governo Draghi, che sarà condizionato dagli impegni che saranno assunti nei prossimi mesi con le istituzioni europee e dall’esigenza di ricostruire le nuove regole del Patto di stabilità, non è affatto scontata la riedizione delle precedenti coalizioni politiche. La rigenerazione del tessuto produttivo, dell’occupazione e degli equilibri sociali dipenderà dalla capacità di ricostruire, in parallelo con l’attuazione del Pnrr, anche le nuove classi dirigenti.
Una sfida che invita ad andare oltre rispetto ai vecchi recinti e che dovrebbe consigliare al Pd di fuoriuscire dagli schemi precostituiti.
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