Lo confesso: alzo bandiera bianca. Capire dove andrà a parare la politica italiana è al di là delle mie capacità. Il Bel Paese che oggi è uno dei punti fermi dell’Alleanza Atlantica, non più tardi di 18-20 mesi fa vedeva il Governo Conte 1 spingersi, senza nemmeno discuterne in Parlamento, a sottoscrivere, primo in tutto l’Occidente, l’ingresso nella Via della Seta cinese.
E che non fosse un semplice atto di ingenuità lo dimostra il tentativo di Beppe Grillo di coinvolgere Conte in una visita all’Ambasciata cinese nel giorno in cui Mario Draghi partecipava al G7 schierato contro Pechino. E il passo indietro di Conte è stata la causa prima della frattura in seno al Movimento 5 Stelle. In questa cornice è facile dimenticare i discussi rapporti tra la Lega e la Russia o l’incursione del moderato Di Maio al fianco dei Gilets Jaunes più intransigenti e violenti, che pure costò una crisi diplomatica con Parigi, oggi probabilmente l’alleato più importante del Bel Paese in sede europea.
Insomma, chi ha cercato un fil rouge per dipanare il gomitolo Italia alla luce degli equilibri seguiti alle elezioni del 2018 non ha potuto evitare sonore cantonate. Ma l’Italia, Paese bizzarro, nel momento della massima follia riesce a infilare il sentiero della saggezza. Quel che basta per evitare il tracollo, mai abbastanza per entrare in zona di sicurezza. Uno stato di precarietà cui hanno contribuito, dal 2008 in poi, le incertezze e gli errori dell’Unione Europea, una delle cause dell’erraticità delle scelte italiane, all’improvviso priva di un ancoraggio internazionale.
La grande paura indotta dal sovranismo Usa di Trump, unita ai rischi collegati alla recessione da pandemia, hanno ribaltato, in meglio, la situazione: l’Italia, da ruota periferica dell’Ue, proiettata sul business con la Cina e attenta a non farsi coinvolgere nel Mediterraneo, è diventata l’anello chiave senza il quale l’Europa non ha una voce internazionale adeguata al peso della sua storia, cultura, economia.
Non è certo per filantropia che l’orientamento dei partners Ue nei nostri confronti è cambiato. Per l’Italia, ha detto Draghi, questo è un momento favorevole. “Le certezze fornite dall’Europa e dalle scelte del Governo, la capacità di superare alcune di quelle che erano considerate barriere identitarie, l’abbondanza di mezzi finanziari pubblici e privati sono circostanze eccezionali per le imprese e le famiglie che investiranno capitali e risparmi in tecnologia, formazione, modernizzazione. Ma è anche il momento favorevole per coniugare efficienza con equità, crescita con sostenibilità, tecnologia con occupazione. È un momento in cui torna a prevalere il gusto del futuro. Viviamolo appieno, con determinazione e con solidarietà”.
Non c’è nulla di scontato, nel bene come nel male. Ma da area periferica dell’Europa, l’Italia è diventata uno degli anelli chiave per la tenuta del quadro internazionale. Una sorta di ago della bilancia di Eurolandia, faticosamente avviata ad archiviare la tentazione sovranista. Come è emerso dalle elezioni francesi, che hanno segnato un brusco stop per le ambizioni di Marie Le Pen, ma anche dal voto tedesco, che ha visto il recupero dei partiti tradizionali contro l’AfD.
Grazie a una politica di bilancio espansiva, resa possibile dall’interruzione del Fiscal compact che ha fatto girare l’economia italiana al di sotto del suo potenziale per gran parte degli ultimi dieci anni, il Bel Paese ha, come ha detto il premier, “molto spazio per utilizzare politiche di bilancio espansive prima di creare pressioni inflazionistiche”, ma anche la necessità di ripensare alla qualità della crescita “per aiutare non solo chi non aveva un lavoro prima della pandemia, ma anche chi lo ha perso in questi mesi e chi potrebbe perderlo nei prossimi anni”.
È una sfida importante per noi, altrettanto lo è per quei partner, Germania in testa, che stanno investendo nel nostro Paese. Per convenienza, beninteso: ma non si tratta più, come negli anni Cinquanta-Sessanta, di attingere manodopera per sostenere il boom dell’economia. O tantomeno per assicurare un mercato alle merci tedesche. La realtà è che l’Europa è troppo piccola e debole per reggere in assenza di un forte lato Sud, ben integrato in un sistema atlantico. Ma senza l’Italia, l’Europa rischia di essere un supermarket di beni intermedi.
In questa cornice la sfida per la successione a Mattarella è cruciale. Si tratta di mettere le basi per il necessario consenso a una soluzione che garantisca la prosecuzione di un percorso virtuoso. Ma chi può farlo? Partiti in grado di pilotare un’elezione non se ne vedono. Per giunta il candidato più logico, Mario Draghi, non può lasciare Palazzo Chigi a metà dell’opera. Semmai tocca a lui, forte della fiducia conquistata nell’Ue e negli Stati Uniti, impegnarsi per l’ultima grande impresa: trasformarsi da possibile king in kingmaker, così suadente da convincere Mattarella a un mandato bis.
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