Gli ultimi giorni di giugno a scuola sono carichi di tensioni e stanchezze, ma anche pieni di una grande euforia: finisce la farsa degli esami – come non sottoscrivere tutto ciò che ha scritto su queste pagine Riccardo Prando qualche giorno fa? – però si sente il profumo della vacanza, del mare. Ma è un giorno triste nella mia scuola: all’assemblea plenaria conclusiva il mio amico Giuseppe, con mascherina d’ordinanza, mette la sua ultima firma sul registro verde degli esami, con altri due colleghi che come lui hanno fatto la storia della nostra scuola, scrivendo pagine memorabili con la loro presenza, la loro professionalità e la loro umanità. E naturalmente la scuola italiana osserva il suo rigoroso silenzio nei loro confronti.
Comunque, se l’istituzione latita, allora ci pensano i colleghi a raddrizzare le cose: si fa una festa per chi se ne va e si annega un po’ la nostalgia e la tristezza in qualche bicchiere seduti al tavolo di un bar che offre un parco intero, qualche filo d’aria e un microfono a chi si sente di dire qualche cosa. “Giuseppe e i suoi due colleghi – in futuro compagni di scorribande tra i cantieri – ci mancheranno molto”, dice commossa una prof che ha un po’ di rimmel sciolto, e non soltanto per il caldo, sopra i suoi quarant’anni portati con una dignità regale.
Così tocca a lui e agli altri adesso, di fronte a noi ormai nel chiaroscuro delle luci accese nel giardino, dire una parola ancora, dopo le tante spese per i loro alunni, nei corridoi, nelle riunioni. Giuseppe prende il microfono, ma non dice parole sue. Anche ai ragazzi, l’ultimo giorno di scuola ha consegnato una poesia, l’ha letta con loro, l’ha stampata e l’ha data a ciascuno come un lascito.
“Adesso che è quasi l’ora di fare/ un bilancio, le parole vengono/ chiare e sarebbe stato bello/ che fossero lì dall’inizio, viene/ da pensare. Ma non potevano:/ loro come questi sassi, come/ il nostro cuore solo adesso stanno/ sul precipizio di ghiaccio, ancora/ per un istante, in bilico tra il sole/ e niente. Ecco perché l’addio/ può riderci e piangerci negli occhi:/ veniamo da chissà dove, ma stare/ qui ogni giorno è stato pulirsi/ via dal cuore e le parole tutta/ la merda – forse non tutta quella –/ che avevamo addosso. Adesso,/ tra un istante, rotoleremo via/ di nuovo. Non sappiamo dove,/ ma sappiamo, l’abbiamo conosciuto/ come accade che noi e il mondo/ siamo un punto, un sasso lanciato/ dentro un fiume bianco e buono”.
E ancora adesso ci sorprende tutti e legge un’altra poesia, di Betocchi questa volta. Legge L’opera comune: “Tra noi che vale, se ti mando in dono/ questi miei versi, o tu parli di me,/ che vale il ricordarci quanti sono/ i debiti che abbiamo l’un con l’altro,/ ogni dedica è scritta, e non ce n’è/ di migliori, né un lascito più scaltro/ di quel che scrisse il reciproco amore/ del fare insieme, senza chieder conto/ di nulla che a quell’opera maggiore/ ch’era, non si sa come, amore insieme/ operante, che gode del suo vivere,/ e noi siam nulla, l’abolito seme”.
Legge tutto il testo, arriva al verso conclusivo: è la vita che tiene. Fa una pausa. Dice grazie. È lui che lo dice a noi. Ancora una volta è lui a stupirci, a tirare fuori dalla sua giacca blu una poesia da cui, l’ho sempre scritto qua, dobbiamo sempre imparare. Una poesia da cui la scuola intera deve imparare: chi siamo noi docenti? Chi sono i nostri studenti? A chi parliamo quando leggiamo e studiamo con loro? Da quale cuore del mondo e dell’essere ci ascoltano o non ci ascoltano? Qual è il nostro compito insieme?
Tra i tavoli e il buio dentro cui finiamo la serata non c’è più tempo, né voglia di recriminare su come hanno ridotto l’esame, su come la scuola cominci sempre dal fondo e torni sui suoi passi a cancellare verità, a costruire ipocrisie con parole e sigle che nulla hanno a che fare con la vita vera. Nostra e dei nostri alunni, delle loro famiglie, del mondo che riderà in faccia alle certificazioni e al curriculum.
Ci chiediamo invece se si potrà ancora pensare alla scuola così, come a un’opera comune, guardandosi nel vero di ciò che facciamo con un cuore che sembra una fiamma di candela rivolta al mistero, quando Giuseppe e i suoi due compagni di pensione se ne vanno via con le cartelle che gli abbiamo regalato, con dentro un biglietto che dice: tanto lo sappiamo che non attaccherete le borse al chiodo. Sono piene di carta, sono vuote, insomma.
Noi no. Accendiamo il motore, andiamo via guardando nello specchietto retrovisore quei tre che se vanno per sempre dalla nostra scuola e ci teniamo in tasca e dentro il cuore il compito che ci hanno affidato. Saremo capaci di ascoltarlo anche dopo, anche quando non saranno più lì a ricordarcelo ogni giorno?
In fondo, mi dico per vincere la nostalgia che già mi prende, ci hanno fatto vedere come fare, ce l’hanno detto ancora con Betocchi: è la vita che tiene. È più difficile che applicare una circolare ministeriale, ma è il lavoro che c’è da fare. Intanto grazie Giuseppe. Fatti sentire qualche volta, vieni da noi con la tua borsa nuova, piena ancora di sorprese.
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