Il Piano Scuola Estate 2021 proposto a fine aprile dal ministero ha creato reazioni diverse: oltre all’attenzione, anche indifferenza, scarsa valutazione, preoccupazioni organizzative, scarsa visione degli obiettivi in esso contenuti.
A mio avviso è stato illuminante l’intervento del capo Dipartimento Stefano Versari in cui ben si evidenzia il fatto che le esperienze di scuola estiva sono già esistenti da molti anni e offerte da numerose scuole alle proprie famiglie e studenti, in concomitanza e/o collaborazione, in molte realtà territoriali, con i centri estivi gestiti e proposti anche dalle amministrazioni comunali, ma che gli obiettivi che si è posto il ministero, tenendo conto di questa realtà che ha vissuto la tragica esperienza pandemica, sono fondamentalmente: offrire questa possibilità anche ai contesti “più difficili e deprivati”, creare luoghi in cui costruire comunità di apprendimento, ricucire il significato di fare scuola in un tempo come questo, far ricomprendere perché vale comunque la pena di studiare, nonostante tutto quello che accade. Versari aggiunge un consiglio stravolgente: “la scuola deve abbattere un po’ i muri, deve smetterla di pensarsi solo come un’aula”, perché “a un’operazione di questo genere va data un’interpretazione non di natura strettamente amministrativa, ma più profonda, altrimenti si perde il senso stesso dell’investimento e dell’impegno richiesti”. Una rivoluzione!
Chi ha letto con attenzione la circolare ne ha ben compreso la valenza educativa e la diversità con le esperienze in corso da anni con le Summer School o con la prima esperienza su larga scala proposta qualche anno fa dall’allora Governo Renzi e sa, quindi, che i paragoni sono inadeguati.
Sarà solo il consuntivo finale ad evidenziare se la proposta ha avuto o meno seguito, ma i primi segnali riportati dai media, purtroppo, non sono incoraggianti.
Ci si chiede perché non ci si sia rassegnati a seguire una volta tanto una buona pratica aziendale secondo la quale puntando al successo di nuove proposte non ci si limita a valutare la bontà del progetto, ma si cura con molta attenzione, anche nei particolari, il piano di fattibilità, senza il quale anche i progetti “considerati ottimi” non si concretizzano con conseguente “bruciatura” del progetto e danno economico, in questo caso formativo.
Credo che al ministero ci sia stata una sopravvalutazione circa la possibile positiva adesione di tutti gli interessati, ritenendo che la reazione e la voglia di uscire dalla situazione creatasi con la pandemia per tornare alla normalità, soprattutto da un punto di vista della “socializzazione”, e la consapevolezza della necessità di recuperi disciplinari nei territori dove la Dad era stata lacunosa fossero leve sufficienti.
Le prime notizie date dai media destano qualche preoccupazione: docenti non interessati, personale insufficiente, segreterie in affanno e anche per quel che riguarda la partecipazione degli studenti, volontaria, non si arriva al 10%; forse sarà maggiore per la terza fase prevista a settembre.
Ci si dovrebbe porre subito una domanda. Come mai questa reazione, visto che molti giudizi sul Piano da parte dei diversi operatori sono sostanzialmente buoni?
In parte non si è tenuto conto, per quel che riguarda docenti ed operatori scolastici, del giusto desiderio di un break lavorativo, dopo l’intenso, complicato e pesante anno di scuola che hanno dovuto responsabilmente gestire; in più, credo che anche l’incentivo economico promesso dal ministro Bianchi in una intervista (“stiamo pensando a dei riconoscimenti per i professori che vogliono, che intendono lavorare dall’estate in avanti, per dare continuità e opportunità”) sortirà un effetto limitato. Stessa attrattiva verso un periodo di vacanza, vista la facoltatività, vale per gli studenti restii sembrati poco interessati alle opportunità offerte dal piano.
La criticità più importante sta nei tempi ristretti utilizzati; non solo per adempiere alcune operazioni burocratiche legate ai finanziamenti, di cui parlerò, od organizzative, legate alla sicurezza sanitaria, ma, soprattutto, per presentare il piano, valorizzarlo nei suoi punti fondamentali, far capire a tutti che può essere un primo passo nella direzione di un modo nuovo di fare scuola, e soprattutto per avviare le giuste azioni di motivazione nei confronti dei docenti e dei dirigenti scolastici affinché le trasferissero a studenti e famiglie.
Un altro aspetto critico riguarda i finanziamenti. Il piano prevede che dei complessivi 510 milioni messi a disposizione, ben 320 verranno erogati con fondi europei legati ai Pon. Credo sia sufficiente entrare nella segreteria di una scuola o parlare con un dirigente scolastico chiedendo dei problemi burocratici legati ai Pon sia per l’istruzione della pratica sia per la rendicontazione, per aprire una lunga lista di complicazioni e difficoltà presenti da tempo sulle quali sarebbe ora di poter mettere mano per la dovuta semplificazione senza la quale molte scuole, anche in questo caso, preferiscono fare a meno delle risorse messe a disposizione. In questa occasione i tempi ristretti e la frammentazione della progettazione in moduli da 30 ore, a fronte di modalità di gestione e rendicontazione molto complesse, sono stati elementi che hanno rischiato di scoraggiare la partecipazione delle scuole.
Va ricordato che, secondo la filosofia del Piano, le risorse sono state destinate prioritariamente alle scuole dei territori con maggiori necessità di intervento: circa il 70% alle regioni cosiddette “in ritardo di sviluppo” (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia), circa il 10% alle regioni in transizione (Abruzzo, Molise e Sardegna) e il rimanente 20% circa alle altre regioni (Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Toscana, Umbria e Veneto nonché le istituzioni scolastiche statali delle Province autonome di Trento e Bolzano).
I dati pubblicati dal ministero sembrano comunque, teoricamente, incoraggianti, dato che sono stati presentati progetti da 5.162 scuole statali, 667 paritarie, 59 centri di istruzione per gli adulti.
Sì, avete letto bene: 667 scuole paritarie, che dopo anni di lotte e pressioni sono riuscite a poter partecipare, ma non senza sorprese e criticità, la prima dovuta ad un criterio che le ha fatte mettere in fondo alle graduatorie, criterio che ha impedito a moltissime di poter accedere ai fondi, la seconda che l’accesso era limitato alle scuole “non commerciali”, complicato ulteriormente dalla burocrazia che non si è limitata alla definizione del Mef (chiedere una retta inferiore al costo medio della scuola statale), ma ha richiesto altre caratteristiche identificanti le attività no profit. Un problema che andrà affrontato con serietà per eliminare una delle discriminazioni di cui soffre il settore paritario. Sarebbe sufficiente applicare le norme europee circa l’essere attività economica o non economica.
In conclusione, il mio auspicio è che il Piano Estate 2021 sia il primo passo verso una nuova modalità didattico-pedagogica che porta ad “aprire la scuola sulle orme di quel che già pensavano il pedagogista De Bartolomeis e don Milani per creare luoghi in cui costruire comunità e apprendimento”, come ha evidenziato Versari e che il consuntivo che sarà fatto dal ministero evidenzi non solo le positività, ma anche le criticità e quale sarà stata l’effettiva partecipazione (per ognuna delle tre fasi previste) al fine di perfezionare la proposta per il prossimo anno, poiché questo avvio di rivoluzione non si areni ma prosegua con vigore.
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