Se pensate che la politica sia il regno incontrastato dell’ipocrisia, date un’occhiata più attenta al mercato. È da lì che promanano tutte le narrative che poi influenzano legislatori e regolatori. Il mercato detta lo spartito, la politica lo suona. E chi paga la banda, decide la musica. E questo primo grafico ci mostra come a partire dall’instaurazione del regime di Qe perenne post-Lehman, le Banche centrali abbiano scientemente deciso a tavolino di impostare una strategia di lungo termine. Passare una mano di politically correct e impegno sociale sul loro nuovo, vero mandato: la monetizzazione sistematica del debito.
Il grafico mostra il numero di menzioni della parola diseguaglianza nei discorsi tenuti rappresentanti di Banche centrali dei Paesi sviluppati nei vari anni: ormai è un mandato statutario. Di fatto, la prova provata – ancorché implicita – di ciò che è noto da sempre: il Qe perenne aggrava le diseguaglianze in seno alle economie, basti vedere l’evoluzione della quota di ricchezza in mano al mitologico 1% della società per convincersi. Insomma, alla faccia del debito buono. Quantomeno, così viene spacciato. Ma tale non è. E c’è di peggio. Come avrete notato, sentendo il telegiornale o semplicemente fermandovi dal benzinaio per fare il pieno, il petrolio è arrivato ai massimi dal novembre 2014.
Di fatto, l’ultima spinta è stata offerta dal nulla di fatto in sede Opec sull’aumento concordato della produzione. Unite a questo la tensione post-elettorale fra Usa e Iran che ha allontanato di colpo l’ipotesi di eliminazione delle sanzioni sull’export di petrolio di Teheran e la ripresa economica post-Covid che richiede molta più energia e la dinamica è servita. Il ritorno dei fondamentali macro, quasi il titolo di un film. Giova però porsi una domanda: non eravamo nell’era della transizione ecologica e dello sforzo per le emissioni zero entro il 2050? La lotta ai combustibili fossili non era prioritaria esattamente come quella alle diseguaglianze sociali, il green come il gender?
Pare di sì, nel senso che si sta combattendo allo stesso modo: unicamente a parole. Ce lo mostrano questi due grafici, dai quali apprendiamo due importanti nozioni. Primo, i flussi di denaro di investitori che stanno convogliando nel comparto Oil&Gas tramite Etf oggi sono ai massimi da un decennio. Quindi, difficile parlare di trend transitorio legato unicamente alla variabile Covid: di fronte a noi non c’è la contingenza di economie in ripresa da una pandemia senza precedenti che cercano e trovano energia dove questa è maggiore e di più facile reperimento, bensì un qualcosa che mostra profili strutturali. Piaccia o meno, petrolio e gas sono qui per rimanerci. Ancora per molto.
E il secondo grafico appare ancora più esplicativo: mostra il prezzo del barile dall’elezione di Joe Biden alla Casa Bianca (novembre 2020) in poi. Calcolando che gli americani hanno appena festeggiato il 4 luglio con la benzina a 3,90 dollari al gallone come prezzo medio nazionale, +42% di aumento su base annua, qualcosa deve essere sfuggito nei calcoli dell’amministrazione Usa. La quale sicuramente ha sposato la tesi della Fed riguardo la transitorietà di queste dinamiche dei prezzi ma, altrettanto chiaramente, ha operato in modo tale – coi fatti e non a parole, quindi con scelte di politica estera e commerciale – che il petrolio tornasse sugli scudi.
Certo, creare le condizioni perché i Talebani riconquistassero l’Afghanistan e il suo serpentone di pipeline, ha aiutato. La politica verso l’Iran, altrettanto. Per non parlare dei rapporti con i Paesi del Golfo, talmente improntati al continuo do ut des ricattatorio da vedere gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita – storici alleati americani nell’area – artefici proprio del blocco in sede Opec. Attendono la ricompensa di Washington, prima di prendere una decisione che potrebbe non poco pesare sulle scelte strategiche della Russia. La quale ha appena inviato un bel segnale chiaro all’Europa e al suo no a guida polacca all’apertura di un dialogo bilaterale con Mosca, ipotesi fortemente spinta da Angela Merkel all’ultimo Consiglio europeo e che lo stesso Mario Draghi aveva sposato (seppur tiepidamente).
Nessuna prenotazione di extra-capacity di gas verso l’Europa da parte di Gazprom all’asta tenuta lunedì dal gestore di rete ucraino: da ieri al 10 luglio, poi, interruzione sulla rete ex sovietica. Poi, proprio su quella che passa da Bielorussia e Polonia per arrivare in Germania. Gazprom ha deciso che questo è il momento giusto per dare una controllata alle infrastrutture. E per mandare un bel avviso a Bruxelles in vista dell’inverno. Soprattutto, stante le continue richieste dei Verdi tedeschi di rimettere in discussione Nord Stream 2, la pipeline diretta fra Russia e Germania che bypassa proprio l’Ucraina. Un risiko energetico enorme. Come sempre. Anzi, paradossalmente ancora più stringente da quando la grancassa verde e ambientalista è scesa in campo e ha tramutato la politica in un enorme WWF a cielo aperto. A uso e consumo di interessi inconfessabili.
E quest’ultimo grafico mostra quanto questa partita sia importante per gli Stati Uniti, alla faccia del Trattato di Parigi e delle amenità da greenwash contenute nel piano Biden di monetizzazione del debito tramite infastrutturazione da buca keynesiana di un Paese che già annega nella liquidità da Qe.
La correlazione fra indice Standard&Poor’s 500 e prezzo del petrolio è appena virata in negativo per la prima volta in quattro anni. Tradotto, prezzi delle commodities in continuo aumento significano crescita del costo di beni di prima necessità per cittadini che entro il 6 settembre perderanno anche il supporto dei piani federali anti-pandemia: di fatto, meno consumi. Quindi, un colpo a revenues e utili per la corporate America quotata in Borsa. Qualcosa che, se ancora i fondamentali hanno un residuo di valore per i mercati azionari, potrebbe e dovrebbe tradursi in un segnale negativo per Wall Street.
Insomma, tra petrolio come arma strategica e rischio di correzione equity, la Casa Bianca pare preferire la seconda ipotesi. Forse, conscia che questa – se avvenisse in modo controllato – porterebbe con sé il gradevole effetto collaterale di nuovo Qe della Fed, invece che il tapering. Insomma, la rivoluzione green può attendere. Il mondo gira ancora – anzi, più che mai – attorno a gas e petrolio. Greta Thunberg se ne faccia una ragione.
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