Il comunicato emesso al termine dell’incontro di ieri sull’ex Ilva al Mise alla presenza di Governo, azienda, sindacati ed enti territoriali riporta le parole del Ministro Giorgetti che ha considerato “molto positiva” la riunione in cui si è stabilito che si ricorra in continuità alla cassa integrazione per 13 settimane, uno strumento individuato dall’Esecutivo per alcuni casi particolari, dopo la cessazione delle misure straordinarie introdotte a causa del Covid.
Al termine di questo periodo, ha aggiunto il Ministro, sarà “necessario e inevitabile” presentare un piano industriale aggiornato con nuove realtà, a cominciare dal Consiglio di amministrazione integrato con la presenza del pubblico. Il piano, ha precisato Giorgetti, dovrà essere concordato con tutte le parti, azienda, sindacati e territorio e in grado di gestire la “situazione occupazionale coerentemente con le scadenze”. L’impegno del Governo, ha concluso il Ministro, è garantire con il suo azionista nel Cda che “il piano sia concordato, realizzato in tempi rapidi, sia serio, approfondito e reso noto non solo per slide”.
Sin qui il comunicato ufficiale del Ministero che – al di là delle indicazioni riferite alla Cig – non è andato e non ha offerto qualche elemento in più – di cui è sperabile che si sia almeno iniziato a discutere – sulla transizione impiantistica cui a Taranto si intende dare corso. Revamping dell’Altoforno n. 5, ambientalizzato, con due forni elettrici e produzione di preridotto di ferro con un prezzo del gas conveniente? Oppure una soluzione full electric come proposto da un progetto della Danieli, nel mentre resterebbero in esercizio sino al nuovo assetto impiantistico gli attuali Afo 1, Afo 2 e Afo 4, quest’ultimo peraltro da rifornire di coke da acquisire sul mercato dopo lo spegnimento della cokeria n .12?
Le parole del Ministro sono apparse comprensibilmente caute e (forse) persino elusive su questi specifici aspetti, proprio per non esacerbare posizioni a oggi radicalmente contrapposte fra sindacati e istituzioni territoriali, mentre l’azienda – o meglio la Dott.ssa Morselli – starebbe attuando quanto a suo tempo concordato con Invitalia, ovvero rifacimento dell’Afo 5, ammodernamento degli altoforni 1, 2 – che però uscirebbero dal ciclo produttivo dal 2024 – e di Afo 4 con l’introduzione di un forno elettrico. Ma i rappresentanti dell’azionista pubblico cosa pensano al riguardo? Quale mandato hanno ricevuto dall’azionista e quest’ultimo dal Governo, ovvero dai Ministri Giorgetti, Cingolani e Orlando per quanto di rispettiva competenza? E il Presidente Draghi, che presumibilmente segue sia pure con doverosa discrezione l’intero processo in corso, che opinione ha al riguardo? E per l’occupazione, quali previsioni si fanno?
Il taglio metodologico del comunicato del Ministero – che auspica, come si è visto, “un piano industriale concordato, realizzato in tempi rapidi, serio, approfondito e reso noto non solo per slide” è auspicabile che abbia voluto coprire di riservatezza un percorso di lavoro già in corso fra tecnici aziendali, consiglieri di amministrazione, consulenti governativi, dirigenti di Invitalia, sindacalisti e rappresentanti dei territori: un percorso che dovrà compiere ogni sforzo per giungere a soluzioni condivise, considerando ovviamente anche le risorse disponibili per avviare a Taranto la riconversione impiantistica che punti anche all’impiego di idrogeno “verde” che si potrà produrre a costi sostenibili quando grandi elettrolizzatori alimentati da fonti rinnovabili saranno in grado di farlo. I tempi non saranno brevi, è bene ripeterlo, e intanto il sito tarantino come continuerà a restare sul mercato?
Allora le previsioni del piano industriale presentato (con slide) ai sindacati il 12 gennaio scorso sono ancora valide? Ipotizzavano una produzione di 5 milioni di tonnellate di acciaio per l’anno in corso, puntando progressivamente a raggiungere a Taranto gli 8 milioni nel 2025 per difendere così l’attuale occupazione che è di 8.206 unità.
La situazione del siderurgico dunque rimane in tutta la sua complessità, ma dovranno impegnarsi tutti con spirito costruttivo a definirne le linee di riconversione impiantistica. Lo stabilimento, lo ripetiamo per l’ennesima volta, è anche la più grande fabbrica manifatturiera italiana e un Paese che nei prossimi 5 anni sarà strenuamente impegnato nell’attuazione del Pnrr non potrà in alcun modo permettersi di perderne le capacità produttive e l’occupazione. Se ne convincano tutti, al Governo, sui territori e in Parlamento.
P.S.: Abusando della pazienza dei lettori approfitto di questo pezzo per approfondire alcuni temi dopo le affermazioni del Dott. Castano circa la natura non pubblica del compendio dell’ex Ilva. L’affermazione del Dott. Castano secondo cui avrei commesso una “grave inesattezza”, affermando più volte che quel compendio impiantistico sia divenuto di proprietà pubblica in capo all’Amministrazione straordinaria, stimola ulteriori precisazioni di carattere giuridico, storico e politico. Peraltro l’autorevolezza del mio interlocutore – il Dott.Castano è stato per lunghi anni infaticabile ed efficace coordinatore della unità per le crisi aziendali presso il Mise, ottenendo spesso risultati produttivi e occupazionali positivi che tutti gli hanno riconosciuto – mi obbliga ad approfondimenti che si spera possano essere utili a una migliore focalizzazione delle vicende del Gruppo Ilva, controllato dalla Riva Fire, a partire dal 26 luglio 2012, giorno in cui venne posta sotto sequestro senza facoltà d’uso l’area a caldo del siderurgico ionico: vicende che, per il loro intreccio di provvedimenti giudiziari e legislativi, ci sembra opportuno sottolinearlo, non hanno precedenti nella storia dell’industria italiana, almeno a partire dal secondo dopoguerra.
Il Dott. Castano ricorda giustamente che gli impianti dell’Ilva sono pro tempore in capo a Ilva S.p.A. in A.S. la quale – in ottemperanza ai dettati della Legge Marzano (l.n. 39 del 18 febbraio 2004 e attraverso gli organi previsti dal Dlgs 270/199 – Commissari e Comitato di sorveglianza) – ha un obiettivo chiaro, costituito dalla conservazione del patrimonio produttivo, mediante prosecuzione, riattivazione o riconversione delle attività imprenditoriali. Aggiunge il Dott. Castano che vi è un limite temporale entro il quale tali obiettivi devono verificarsi, al termine del quale la società deve essere ceduta a un nuovo imprenditore attraverso bando pubblico. Se non si raggiunge l’obiettivo i beni della società verranno sottoposti ai principi del fallimento. Così facendo, si tenta il salvataggio dell’azienda in crisi, anche al fine di tutelare nel modo migliore i creditori di Ilva. Lo Stato dunque – conclude il Dott.Castano – svolge “compiti di sorveglianza” previsti dalla legge, ma non è il proprietario dell’Ilva.
Ora ci sembra opportuno ricordare che l’ammissione “immediata” dell’Ilva alla procedura di amministrazione straordinaria avvenne con decreto del ministro dello Sviluppo economico del 21 gennaio 2015, trasmesso immediatamente al Tribunale di Milano, su istanza depositata – a norma dell’art.2 commi 1 e 2 ter del decreto legge 347 del 23 dicembre 2003, convertito con modificazioni nella legge 18 febbraio 2004 n. 39, più nota (almeno per gli addetti ai lavori), come Legge Marzano dal nome dell’allora ministro dello Sviluppo economico – dal Dott. Pietro Gnudi nella sua qualità di Commissario straordinario dell’Ilva S.p.A., nominato si sensi del decreto legge 4 giugno 2013 n.61.
Ma come si era giunti alla nomina di Piero Gnudi a Commissario straordinario dell’Ilva? Perché in precedenza vi era stato un provvedimento della Magistratura di Taranto di sequestro preventivo dei beni della capogruppo Riva Fire, per un importo di 8,1 miliardi di euro – somma ritenuta pari ai danni arrecati all’ambiente e ai cittadini dalla gestione di Riva del siderurgico – provvedimento di sequestro che aveva portato alle dimissioni del Consiglio di amministrazione, creando così le premesse per l’emanazione del decreto del 4 giugno 2013 n. 61 che de iure e de facto “spossessava” alla proprietà la gestione dei suoi beni aziendali.
All’epoca, si era ai tempi del Governo Letta, vi furono (basti guardare la stampa dei quei giorni) forti perplessità per l’adozione di una misura di commissariamento che affidava al Commissario straordinario il mandato di garantire la continuità dell’attività industriale, utilizzando le risorse dell’impresa per coprire i costi dei danni che all’Ilva – sulla base delle indagini degli organi inquirenti tarantini, supportate da specifiche perizie, ma senza che vi fosse stata ancora al riguardo una qualche sentenza processuale sia pure di 1° grado – si imputava di aver arrecato alla salute dei cittadini e all’ambiente nel capoluogo ionico, violando le disposizioni dell’Autorizzazione integrata ambientale.
E con quel provvedimento si finiva col coinvolgere a suo danno anche l’azionista di minoranza dell’Ilva, ovvero il gruppo Amenduni, mai inquisito né coinvolto nelle vicende giudiziarie che stavano interessando la società partecipata.
Alla luce poi delle sempre più precaria situazione finanziaria dell’Ilva, il 5 gennaio del 2015 il Governo emanava il decreto legge 1/2015 con il quale adottava una procedura d’insolvenza ad hoc per l’Ilva, come ricorda anche la decisione della Commissione europea 1498/2018. Tale procedura ad hoc è stata redatta sul modello della cosiddetta Legge Marzano in materia di diritto fallimentare che disciplina l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in difficoltà. Di conseguenza il 30 gennaio del 2015 il Tribunale di Milano dichiarò l’Ilva insolvente: un’insolvenza che – si badi bene – non aveva determinato la gestione della vecchia proprietà ormai spossessata della conduzione aziendale dal decreto n.61 del 4 giugno del 2013 e che risultava pari a 2,9 miliardi di euro.
Il Governo nominò tre commissari straordinari incaricati di amministrare l’impresa. E il 4 dicembre 2015 l’Esecutivo approvò il decreto legge 191/2015 recante disposizioni urgenti per la cessione a terzi dei complessi aziendali del gruppo Ilva tramite gara trasparente e non discriminatoria, tale da garantire la discontinuità rispetto all’impresa precedente.(il corsivo è nostro). Cioè si escludeva esplicitamente che alla gara potesse partecipare il Gruppo Riva che nel frattempo aveva subito per volontà dei suoi azionisti un processo di riassetto impiantistico e finanziario, dal cui perimetro ovviamente era stato escluso il compendio costituito dall’intero Gruppo Ilva.
Abbiamo voluto ricordare questi passaggi per evidenziare come ci sembri evidente che dal commissariamento del 4 giungo 2013 in poi sia avvenuto de facto, anche se non sempre ineccepibilmente de iure, uno spossessamento di gestione di beni impiantistici di proprietà del Gruppo Riva che – con il già menzionato decreto legge 191 del 4 dicembre 2015, convertito poi nella legge 1 febbraio 2016 n. 13 – si stabiliva di vendere così da garantire la discontinuità rispetto alla impresa precedente. È vero allora che lo Stato tramite l’Amministrazione straordinaria “svolge compiti di sorveglianza sul bene”, ma nell’arco temporale di espletamento di tale sorveglianza, e alla luce di quanto detto in precedenza, si potrebbe negare che sia avvenuto un profondo e sostanziale mutamento degli assetti proprietari del Gruppo Ilva, tale ormai da configurare una loro proprietà pubblica, almeno sino alla alienazione definitiva ad un nuovo acquirente? Insomma a oggi il Gruppo Ilva sarebbe forse res nullius?
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