Con il rapporto annuale per l’anno 2021 l’Istat offre una lettura a tutto campo dell’impatto della emergenza Covid sulla comunità nazionale. Un sapiente assemblaggio dei numeri e delle analisi sviluppate nel corso di una crisi inedita che ha indotto cambiamenti profondi nelle politiche economiche e sociali, e nei comportamenti collettivi e individuali, destinati a produrre effetti anche nel medio e lungo periodo.
L’impatto negativo sul reddito delle famiglie (-2,8%, pari a 38 miliardi di euro) è stato contenuto da un inedito ruolo dello Stato con l’erogazione erogazione di 61 miliardi di sostegni pubblici. Risorse che hanno compensato i due terzi delle perdite che si sarebbero verificate spontaneamente in assenza degli stessi. Uno scenario che non ha precedenti caratterizzato, nel contempo, dall’esplosione del debito pubblico e dalla parallela crescita della propensione al risparmio privato, aumentata dall’8,5% al 15,8% sul valore del reddito totale, per effetto della riduzione dei consumi indotta dalle misure di distanziamento e dalle crescenti preoccupazioni per il futuro del lavoro.
Il presidente dell’Istat Giancarlo Blangiardo non esita ad assimilare a uno scenario di guerra la lettura delle tendenze demografiche: l’aumento del 15,6% dei decessi per via del Covid, l’ulteriore crollo delle nascite, ridotte a 404 mila, il minimo storico a partire dall’Unità d’Italia e circa 150 mila in meno rispetto al 2008, l’anno precedente la crisi economica che segna un’accelerazione del declino demografico. Numeri destinati a generare un effetto di trascinamento nell’anno in corso per via della riduzione delle diagnosi sanitarie rivolte a prevenire i rischi di mortalità, e per il calo dei concepimenti dato per scontato nella seconda parte del 2020.
Il quadro d’insieme conferma una società profondamente ferita, per molti versi preoccupata per le conseguenze della crisi sul reddito e sul lavoro, Ma nel contempo capace di metabolizzare le esperienze negative e di mobilitare le energie e di innovare le organizzazioni produttive e le relazioni sociali.
Le perdite del Pil potrebbero essere recuperate più rapidamente del previsto, grazie alla cornice delle politiche espansive monetarie e agli investimenti pubblici finanziati con il Pnrr, e all’effetto trainante dei settori manifatturieri e delle costruzioni che sono già allineati ai livelli di attività precedenti al Covid. Con la ripresa economica potrebbe essere recuperata una parte significativa dei 735 mila posti di lavoro persi nel corso dell’emergenza sanitaria. Ma il rapporto Istat, confermando le analisi fatte in precedenza, segnala il forte indebolimento della qualità del capitale sociale, per l’abnorme consistenza, oltre 6 milioni, della quota delle persone in età di lavoro non occupate o sottoccupate, e per la permanenza di rilevanti aree di lavoro sommerso.
Molte delle criticità evidenziate nel rapporto annuale confermano l’importanza di mettere in campo riforme efficaci per recuperare i ritardi accumulati nel corso degli anni 2000 rispetto agli altri Paesi europei, sostanziati dalla perdita del 20% del Pil rispetto a quello medio dei Paesi Ue, dalla riduzione della produttività del capitale e del lavoro in molti comparti dei servizi, dal basso tasso di occupazione delle persone in età di lavoro.
I propositi di fare tesoro delle esperienze maturate nel corso dell’emergenza Covid, che vengono ribaditi come una sorta di mantra che motiva gli obiettivi delle riforme, rischiano di essere devianti. Gli aiuti alle imprese, ai lavoratori e alle famiglie, e il poderoso aumento del debito pubblico per finanziarsi, devono essere considerati come una sorta di parentesi giustificata dalle ragioni extra economiche della crisi, non il parametro sui quali tarare gli obiettivi delle riforme e l’utilizzo delle risorse.
All’opposto è necessario mobilitarle per accrescere le masse critiche di capitale da destinare agli investimenti e di quello sociale per migliorare la quantità e la qualità del lavoro, per assicurare una crescita stabile dell’economia, e la sostenibilità del debito pubblico e della spesa sociale.
Tradotto in pratica tutto questo significa:
– rivitalizzare il peso economico e sociale delle famiglie con i sostegni alla natalità, per rendere compatibili i carichi lavorativi con quelli familiari e sostenibili le spese per l’educazione dei figli e la cura degli anziani;
– contrastare il lavoro sommerso in molti comparti produttivi che deprime la produttività dei fattori, sottrae risorse preziose all’erario e produce effetti distorsivi per le politiche di redistribuzione del reddito;
– costruire un mercato del lavoro efficiente in grado di rendere sostenibile l’imponente mobilità dei lavoratori che è attesa nei prossimi anni per effetto delle riorganizzazioni produttive e della crescente obsolescenza di mestieri e professioni.
È sulla base di questi obiettivi deve essere misurata la qualità delle riforme che vengono annunciate dal Governo e dalle forze politiche.
Sui sostegni alla famiglia, un passo importante è stato fatto con la legge delega del Family act approvata dal Parlamento, ma il percorso di attuazione si preannuncia complicato per la carenza delle risorse disponibili, e per la decisione di limitare l’erogazione dell’assegno unico solo per i figli a carico delle famiglie con redditi medio bassi da selezionare utilizzando l’indicatore Isee. Una scelta che compromette alla radice l’obiettivo di sostenere in modo stabile la ripresa della natalità e che, sulla base delle valutazioni fatte dall’Istat, potrebbe persino comportare delle perdite a regime rispetto alle attuali detrazioni fiscali e assegni familiari, per una parte significativa dei lavoratori dipendenti.
Le ipotesi di riforma del fisco proposte dalla commissione parlamentare incaricata, che per il nostro ministro dell’Economia comportano dei costi insostenibili per il bilancio pubblico, si propongono di favorire la riduzione della pressione fiscale per i redditi medio bassi allargando di fatto la fascia del 43% dei contribuenti che non versa un euro all’erario e che nel contempo beneficia in modo privilegiato delle varie tipologie di prestazioni pubbliche, detrazioni fiscali e bonus per gli acquisti compresi, vincolate alle dichiarazioni Isee.
L’annunciata riforma degli ammortizzatori sociali lascia sullo sfondo il tema delle politiche attive, e le cause del loro perenne fallimento, per soddisfare l’obiettivo di allargare la platea dei beneficiari e la durata delle prestazioni. Con l’esito scontato di aumentare il numero dei sussidiati, di disincentivare la ricerca del lavoro regolare e di offrire nuovo carburante per quello sommerso.
L’erogazione dei 60 miliardi di sostegni ai redditi, tra i quali 14 destinati a contrastare la povertà, non hanno impedito la crescita di un ulteriore milione di nuovi poveri. La causa viene attribuita agli effetti del Covid, ma nella realtà sono i distorti meccanismi del reddito di cittadinanza a indirizzare buona parte delle risorse verso beneficiari che non hanno titolo, o comunque diversi da quelli stimati dall’Istat, e con una forte penalizzazione per le famiglie numerose. Per rimediare questa stortura il legislatore ha già previsto di erogare l’assegno unico anche per i minori a carico delle famiglie che beneficiano del reddito di cittadinanza. Ma anziché ridurre in modo equivalente le risorse per il Rdc, la maggioranza delle forze politiche è orientata a incrementarle di 2 miliardi di euro.
Queste evidenze, che abbiamo provveduto a documentare con l’utilizzo dei numeri in articoli dedicati ai singoli argomenti, ci portano a constatare le distanze che intercorrono tra gli obiettivi fissati con il piano di ripresa (Pnrr), e destinati a diventare dei vincoli per le politiche economiche dei prossimi anni a seguito delle intese che saranno sottoscritte con le istituzioni dell’Ue, e la maturità della nostra classe dirigente politica.
La condizione per rendere sostenibile e duratura la ripresa economica dipendono essenzialmente dalla capacità di rigenerare una massa critica adeguata di risparmio destinato agli investimenti, e di aumentare in modo significativo il tasso di occupazione. Al contrario si continua a ritenere prioritario espandere il ruolo redistributivo dello Stato. E per lo scopo, si cerca di alzare il tiro delle rivendicazioni con l’ausilio di analisi taroccate della realtà.
Emerge in modo clamoroso il divario esistente tra l’autorevolezza dell’azione del presidente del Consiglio nelle relazioni internazionali, e per rigenerare la fiducia dei mercati finanziari verso l’Italia, e i comportamenti dell’intendenza che dovrebbe sostenere le sue iniziative. È un gap che è necessario colmare perché rischiamo di vanificare gli sforzi fatti nei mesi recenti e di compromettere la credibilità del nostro Paese.
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