Ultimo vincitore italiano, vent’anni fa, della Palma d’Oro al Festival di Cannes, La stanza del figlio, ottavo lungometraggio professionale di Nanni Moretti, si distingue dal resto della sua produzione per almeno un paio di caratteristiche. È il primo (o quasi) ad avere come protagonista un personaggio diverso da Michele Apicella (cognome della madre di Moretti), ovvero, come in Caro diario (1993) e in Aprile (1998), lo stesso regista che recita in prima persona, anche se mediato – parzialmente – dalla finzione scenica. Dico quasi perché tra i precedenti troviamo anche La messa è finita (1985), il suo film più compatto stilisticamente, meritorio di un Orso d’Argento al Festival di Berlino, che invece vede come protagonista la tormentata figura di un prete, don Giulio, comunque interpretato da un Moretti senza barba ma con lo stesso piglio degli Apicella precedenti.
Secondariamente, essendo sceneggiato anche da altri autori, diversi dai collaboratori usuali, il film porta naturalmente con sé una storia insolita rispetto allo standard morettiano. Anche il punto di vista del racconto si evolve, ammesso che di ciò si possa parlare al cinema: da una vicenda presentata solo attraverso l’incedere del protagonista, presente in ogni scena e interpretato dal regista, con La stanza del figlio si passa a una visione polifonica, che si arricchisce anche del punto di vista di altri personaggi, nella fattispecie della moglie e della figlia del protagonista (interpretate rispettivamente da Laura Morante e da Jasmine Trinca).
Questa e altre innovazioni del cinema morettiano vennero salutate da molti critici nostrani come importanti novità di contenuti e stile, quest’ultimo definito da alcuni “essenziale e raffinato, raggiunto nella maturità”. Mentre secondo altri, in particolare i critici d’Oltralpe, il film presentava un eccesso di simboli e ammiccamenti visivi, che sì gli valsero il citato premio a Cannes, ma anche recensioni e valutazioni critiche perplesse da parte dei Chaiers du Cinema, la storica rivista di critica cinematografica da cui uscì la generazione di autori della Nouvelle Vague. In questa si evidenziava soprattutto la mancanza, nel nuovo Moretti, della consueta “insolenza del dubbio”, cioè la verve critica nei confronti dei costumi contemporanei, presente nei lavori trascorsi e a tratti molto incisiva e condivisibile.
La stanza del figlio, se pur di notevole impatto emotivo, non è il miglior film di Nanni Moretti. Personalmente, rispetto alle lodi al nuovo stile “della maturità”, credo sia più ragionevole il bonario rimbrotto dei Chaiers: la messa in scena è ricolma all’inverosimile di simboli che evocano il trapasso e il distacco. Basti solo ricordare l’inizio del film, la prima scena in cui il protagonista, lo psicologo Giovanni (Nanni Moretti), termina il lavoro nel suo studio casalingo, chiude le imposte della stanza – così che da luce si fa buio -, esce dalla stanza (porta, passaggio), passa attraverso un paio di altre porte in un corridoio in parte illuminato e in parte oscuro, arriva infine in un ampio disimpegno, dove incontra la moglie (Laura Morante) e risponde al telefono, che nel frattempo ha preso a squillare. Direi un po’ troppo, anche per i più sfrenati cultori del cinema d’autore (cosiddetto).
Validissimo invece, e in gran parte riuscito, il tentativo di affrontare, raccontando con notevole misura le banalità del quotidiano, tematiche alte e lontane dal contemporaneo storico-politico, cosa alquanto inusuale per la cinematografia morettiana. Moretti, obbligandosi con questo film a svestire i soliti panni da laico fustigatore di costumi, porta il film a liberarsi delle consuete secchezze stilistiche e recitative per affrontare la morte prematura di un figlio adolescente, e tutte le tematiche che un tale evento porta inevitabilmente con sé: sensi di colpa, solitudine, il bisogno e insieme l’incapacità di comunicare che rischia di rovinare quel che resta di una famiglia. In questo il film centra l’obiettivo, pur rimanendo la sensazione di un Moretti a tratti spaesato, un po’ fuori dal suo territorio filmico preferito.
Oltre alla citata Palma d’Oro, La stanza del figlio fece incetta dei principali premi nazionali per la stagione 2001, soprattutto si aggiudicò il David di Donatello per il miglior film, risultando quindi il film di Moretti più premiato (anche se – come detto – non il migliore).
La musica originale, di Nicola Piovani, sorregge molto bene l’atmosfera generale del film, ancor più arricchita dalla presenza di belle canzoni come Insieme a te non ci sto più, in versione originale, e By This River di Brian Eno. E proprio un verso della citata canzone che la Caselli cantava sul finire dei Sessanta (musica di Paolo Conte e testo di Vito Pallavicini) inquadra perfettamente il tema centrale del film: “e quando andrò, devi sorridermi se puoi, non sarà facile ma sai, si muore un po’ per poter vivere”. Scelta intelligente e sublime, che rende l’inevitabile identificazione con i genitori del film, con il loro dolore e il loro percorso di elaborazione del medesimo, di molto più autentica.
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