Il conflitto che anima la maggioranza di governo su diversi temi ha trovato una valvola di sfogo che i leader utilizzano per smarcarsi e imbracciare il vessillo di una propria autonoma posizione da ribadire come voce fuori dal coro senza fare agguati in Parlamento. Lo strumento è quello del referendum, invocato da Salvini su temi della giustizia e rilanciato da Renzi sulla legge per il reddito di cittadinanza. Se nel primo caso appare evidente il tentativo di fare pressione sulla riforma in corso, e pare anche che a fronte di un buon compromesso i quesiti verranno superati, l’idea di un referendum sul tema del reddito di cittadinanza rischia di essere la mossa del definitivo arrocco nei massimalismi iperliberisti di un pezzo della politica italiana, che un tempo aveva praticato il riformismo, e di fornire anche un assist straordinario ai populismi che sul reddito di cittadinanza hanno prosperato.
Lo strumento del reddito di cittadinanza è ampiamente criticato e osteggiato nella sua attuale declinazione da tanti che, sin dalla prima stesura, hanno denunciato il rischio di creare uno strumento di regressione sociale in molte aree del Paese, favorendo sia gli approfittamenti della criminalità organizzata che il dilagare del lavoro nero. Ne scrivevamo già prima della pandemia e le inchieste dimostrano sempre di più come interi clan si siano approvvigionati dallo Stato non temendo le blande sanzioni che la legge ha posto contro gli infedeli percettori, consapevoli, i criminali, dell’inefficienza della giustizia e forti della loro capacità di vivere da sommergibili con la ricchezza vera ben nascosta, rendendo così impossibile ogni ipotesi di recupero.
In più, la concorrenza tra reddito di cittadinanza ed i lavori stagionali ha creato un corto circuito tale da rendere di fatto refrattari all’impiego i percettori, che ben hanno fatto a rifiutare paghe basse optando per un sussidio minimo. Non erano pronti gli imprenditori, che sulle dinamiche salariali al rialzo non hanno alcuna cultura, e che hanno optato in molti casi per offrire lavoro non regolare pur di tenere basso il costo del lavoro, aiutati dalla carenza di controlli e dal generale clima da giungla liberista che molti invocano pur di avere carestia economica. Temi tuttora attuali ed irrisolti. La pandemia ha silenziato ogni critica, la funzione sociale di un tale strumento è apparsa quantomeno moralmente accettabile, visto il momento straordinario di crisi, ora che l’orizzonte appare meno fosco e le imprese chiedono manodopera si vuole dividere il Paese tra chi è favorevole e contrario.
Ma a cosa? Renzi ha votato l’ampliamento del reddito di cittadinanza quando era nel precedente esecutivo, appena lo scorso anno, non ha inciso in profondità sulle storture denunciate e si è anzi intestato la riforma dello strumento nato dai grillini. Perciò non può dirsi contrario allo strumento in sé che, coerenza avrebbe voluto, poteva pretendere di limitare e non ampliare.
Inoltre, la contemporanea richiesta di abbattere la pressione fiscale e di cancellare il reddito di cittadinanza sembra fatta apposta per scavare un solco con il Mezzogiorno. Renzi sa bene che i benefici di un taglio fiscale andranno soprattuto dove il reddito si produce, cioè nel Nord nel Paese, e che l’abolizione del reddito toglierà al Mezzogiorno un supporto che lui stesso aveva introdotto, con il famoso reddito di inclusione, e che ha poi rafforzato quando era al Governo con i grillini. In pratica si propone come il campione dei ceti produttivi contro chi vive di sussidi.
Sennonché questa pozione non coglie che proprio il divario tra territori che producono e quelli che fanno fatica è la vera zavorra del Paese e che questo solco diviene sempre più profondo tutte le volte in cui ci si rifugia nella logica del merito senza conoscere la realtà intera del Paese. Se non aumenta il tasso di occupazione, ora fermo al 59%, se non aumenta la produttività nel Mezzogiorno, se non cresce l’economia del Sud il Paese nella sua interezza non potrà liberare energie finanziare adeguate a supportare il debito extra che stiamo emettendo in questi anni.
Il reddito di cittadinanza serve a supportare una fase di trasformazione del ceto produttivo e sociale del Mezzogiorno mentre si dovrebbe avviare un progetto di costruzione di competenze e di opportunità per chi ora è fuori dai processi produttivi. Questa è la battaglia riformista da fare, non espungere interi pezzi del Paese dal progetto di rinascita postpandemica lasciandoli al laissez faire. Non solo è sbagliato, ma anche pericoloso. Renzi sa bene che il referendum rischia di spaccare anche geograficamente il Paese e che la presenza al voto potrebbe affossare, se venisse rigettato, un vera riforma dello strumento, ma pare, purtroppo, più interessato a divenire attrattivo nuovamente per quelli che ritiene i suoi stake holder politici più che fare un ragionamento politico profondo.
Per fortuna Draghi è fuori da questa logica. Al punto da aver dato corpo alle sue idee, espresse in anteprima a Rimini quasi un anno fa, proponendo autorevolmente di insediare a Melfi, e non a Torino, la GigaFactory delle batterie per la mobilità elettrica della ex Fiat. Sa che quei posti lavoro sono il miglior antidoto al reddito di cittadinanza e la migliore risposta alla fame di attenzione e di crescita del Mezzogiorno. Un vero successo per Draghi ed il suo governo di cui Renzi dovrebbe fregiarsi, visto il suo ruolo nel farlo nascere, facendo propria la visione che lo ispira senza proporre conflitti per crescere di qualche punto nei sondaggi.
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