Quarant’anni fa usciva negli Usa la prima edizione di Dopo la virtù, di Alasdair MacIntyre, una delle opere più influenti nell’etica nel secondo Novecento. In Italia essa venne inizialmente collocata all’interno del coevo dibattito nordamericano tra liberals e communitarians, inaugurato da Una teoria della virtù di John Rawls (1971).
In tale prospettiva, la proposta macintyreana era correttamente inquadrata nella sua portata critica anti-liberale, ma in essa veniva eccessivamente enfatizzato il ruolo svolto dalla categoria di comunità. Dopo la virtù rischiava insomma di essere considerato come l’ennesima espressione di un pensiero nostalgico del calore e dell’organicità di un ethos comunitario polemico verso la freddezza e meccanicità della società liberale moderna.
Gli studi critici che seguirono la pubblicazione di Dopo la virtù, che finalmente cominciarono a scavare nella trentennale produzione saggistica macintyreana precedente, insieme alla successiva produzione del filosofo di Glasgow chiarirono gradualmente il senso della polemica anti-liberale macintyreana.
Il percorso biografico e intellettuale di MacIntyre è caratterizzato da varie svolte. I suoi esordi avvengono nel nome di un marxismo che diviene ben presto orfano del riferimento ideale sovietico e che si pensa come erede di un cristianesimo purificato dalle incrostazioni moralistiche borghesi al fine di poter liberare la sua carica radicale escatologica e produrre un effettivo cambiamento sociale. Negli anni Sessanta ‒ proprio nel periodo in cui il marxismo produce nei paesi europei al di qua della Cortina di ferro il suo massimo impatto ‒ MacIntyre si allontana tanto dal marxismo quanto dal cristianesimo a motivo della loro mancanza di radicalità. Permane la critica al liberalismo inteso non come dottrina politica ma bensì come ethos, come forma di vita che, nel suo inscindibile connubio con la forma di produzione capitalistica, non può che produrre alienazione individuale e reificazione dei rapporti sociali.
La novità di Dopo la virtù sta nel fatto che esso presenta anche una parte propositiva nel nome di Aristotele. Tale novità è l’esito di un lungo cammino di pensiero che porta MacIntyre a individuare nel concetto di pratica il perno su cui far ruotare la possibilità di una nuova moralità e anche di una nuova politica. Le pratiche sono attività presenti nella nostra vita quotidiana: allevare ed educare figli, mestieri e professioni, sport e attività artistiche, la ricerca intellettuale stessa. Queste pratiche sono caratterizzate da fini interni ed esterni e da regole e modelli socialmente stabiliti. Le pratiche possono evitare la corruzione liberale e capitalistica che segue la prevalenza dei fini esterni (efficacia strumentale rispetto al potere, alla ricchezza, al piacere) su quelli interni solo se i soggetti coinvolti esercitano le virtù etiche e intellettuali richieste dalla natura della pratica stessa. Saggezza, moderazione, giustizia, coraggio, pazienza, umiltà sono solo alcune tra le virtù che le varie etiche di origine greca e latina, tanto pagane quanto cristiane, hanno posto al centro della moralità vissuta.
L’intuizione fondamentale che sta alla base dell’etica delle virtù di MacIntyre ‒ e che verrà sempre più esplicitata e chiarita nel passaggio dall’aristotelismo al tomismo ‒ è che le virtù in quanto tali incarnano i precetti della legge naturale. In altre parole, chi non vuole cedere agli imperativi sistemici che la corporate modernity impone in ambito lavorativo, familiare o nelle attività che si praticano nel tempo libero, deve obbedire ai precetti della legge naturale. Ma tali precetti ‒ che ai più appaiono fumosi e inefficaci al punto da indurre tanti intellettuali, anche cattolici, ad abbandonare del tutto la categoria stessa di legge naturale ‒ non sono altro che le virtù stesse richieste dalle pratiche attraverso le quali noi realizziamo parzialmente il bene della nostra vita, la nostra felicità. In questo senso, i precetti della legge naturale possono essere considerati come principi quasi-trascendentali delle pratiche sociali.
MacIntyre non nasconde le difficoltà che le persone incontrano sempre più nell’esercizio delle virtù all’interno delle proprie pratiche, soprattutto in ambito lavorativo. La corporate modernity sembra avanzare in modo inesorabile imponendo dappertutto, anche nell’ambito più intimo della vita familiare, i suoi imperativi sistemici. Ciò non toglie che l’esperienza quotidiana ci mette davanti a esempi di resistenza da parte di persone che si associano per sostenersi nella loro vita familiare e lavorativa. Un esempio di ciò è l’International Society for MacIntyrean Enquiry (Isme), fondata nel 2007 da un piccolo gruppo di studiosi di diversa estrazione culturale (cattolici tomisti, neo-marxisti, filosofi analitici) per aiutarsi nella propria pratica di ricerca intellettuale e nell’esercizio delle virtù che tale pratica richiede per evitare di venire fagocitata dal sistema sociale. Dal 12 al 15 luglio si svolgerà online il 14esimo convegno di tale società, che vedrà la partecipazione di più di cento studiosi provenienti da decine di paesi impegnati in sessioni seminariali, panel di discussione, workshop riservati agli studenti, presentazione di libri. Un bell’esempio di militanza intellettuale, insomma.
Per informazioni e iscrizioni https://www.macintyreanenquiry.org/isme-2021-summer-conference
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