«Una società futura senza carceri, o almeno dove siano diverse da oggi»: l’appello lo ha lanciato ieri dalle colonne del “Riformista” monsignor Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Dopo il dramma di quanto avvenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere – e nel giorno della visita di Cartabia e Draghi per segnare un deciso cambio di passo dall’epoca del giustizialismo di Conte e Bonafede – il vescovo scuote le coscienze di tutti, cristiani e non, nel ripensare un vero modello di pena “educativa” da proporre ai detenuti nei prossimi anni.
«La comunità dei detenuti, traumatizzati e feriti dalla violenza ma anche danneggiati nel loro percorso educativo alla cui base non può che esservi la costruzione di un’autentica fiducia nei riguardi dello Stato e di coloro che lo rappresentano, fiducia gravemente minata da quanto accaduto; la comunità della polizia penitenziaria, composta per la grande maggioranza da uomini e donne onesti, che adempiono lealmente il proprio dovere, spesso in condizioni di lavoro difficili e poco curate dal punto di vista psicologico; la comunità delle famiglie degli agenti coinvolti, anch’essa travolta dalle pagine di cronaca e provata psicologicamente dal timore di ritorsioni e vendetta», sono dirimenti le parole del vescovo di Napoli, Domenico Battaglia, citate per intero da Mons. Paglia nell’editoriale sul “Riformista”. Con le violenze in carcere, come quelle viste a Santa Maria Capua Vetere, la società è come se si addormentasse davanti ad una emergenza che non sente più come propria: «le carceri, non sono un problema nostro. Sono lì, edifici chiusi, separati dal resto della società, non hanno a che fare con la mia vita, con la nostra vita. Problema risolto? No, il problema carcere, il pianeta-carcere è tutt’altro che risolto».
LA SOCIETÀ SENZA PIETAS CHE DIMENTICA IL PROBLEMA
Per l’arcivescovo è un problema di società, di cultura, di politica: «Questa pigrizia (che ci sembra innocua, ma non lo è affatto) spinge la giustizia a essere “spietata”, in un atteggiamento senza più la “pietas“: non solo non aiuta a cambiare, ma rende meno umani e lascia aperta una ferita nella società». Lo dicevano Papa Benedetto XVI e Papa Giovanni Paolo II, come Francesco, in svariati discorsi pubblici: Paglia cita quello per la GMG 2002 di Papa Wojtyla, «Quanti dolori soffre l’umanità per non sapersi riconciliare, quali ritardi subisce per non saper perdonare! La pace è la condizione dello sviluppo, ma una vera pace è resa possibile soltanto dal perdono». La strada è lunga in Italia e non solo: il modo per sbrigare più facilmente il “problema” dei detenuti è la pena detentiva, il carcere. La strada invece inseguita dalla Chiesa e da tante associazioni umanitarie è quella più lunga e tortuosa, dai risultati incerti ma comunque più produttivi: la giustizia riparativa che è tale solo se ispirata alla rieducazione umana. Spiega ancora Paglia: «con Gesù si recupera quello che il Creatore volle fin dall’inizio e che la malizia degli uomini aveva rovinato. Nella predicazione di Gesù si manifesta in pienezza la giustizia intesa come riconciliazione e comunione nuova tra le persone». La pena deve rispettare la persona, il contrario di quanto visto nei tremendi video dalla Campania: «Non una società senza pena, ma deve essere redentiva, fonte di cambiamento». Per farlo, conclude Mons. Paglia, la Chiesa ci dice che di fronte a problemi complessi come il carcere occorre guardare «a tutta la persona umana, considerarla nelle sue dinamiche e aprire sempre la porta alla misericordia e alla speranza. Ora è necessaria, anzi indispensabile, una politica all’altezza dell’ideale riparativo, con misure concrete». Ad esempio facendo uscire i minori, adoperi per trattamenti più umani, puntando su rieducazione e formazione al lavoro: «La pandemia ci ha dimostrato che tutti siamo toccati, a tutti compete fare qualcosa, tutti siamo collegati. Noi siamo un “Noi”. Anche con i carcerati».