Nel pomeriggio del 13 luglio 2021 sono stati pubblicati i dati relativi all’inflazione generale e core dei beni al consumo degli Stati Uniti, e riferentesi a giugno 2021 in tendenziale sull’anno. Abbiamo pertanto 4,5% per l’inflazione core e 5,4% per quella complessiva del paniere dei beni; il consensus di Wall Sreet aveva come aspettativa il 4,8-4,9% per l’inflazione complessiva e il 3,8% per quella core: è per tale motivo che lo spiazzamento dei mercati è sentito ai dati effettivi. Invece, chi scrive aveva previsto il 6-6,2% avendo così un eccesso di sovrastima di circa lo 0,6%; anche se nella presente esposizione c’è un afflato di trattare le problematiche in questione “pro doma propria”, è evidente però che a livello qualitativo il forecast delle borse era orientato al rientro dei valori inflattivi: dal 5% di maggio al 4,8% di giugno, mentre chi scrive aveva “intuito” la progressione all’innalzamento dei valori (questo anche per tutta una serie di motivi non poco importanti, non ultimi tra i quali il fatto di non avere il sottoscritto responsabilità operative).
Questa analisi si articola perciò nel tentativo di spiegare l’eccesso di bias sovrastimante dello 0,6%, e di ridiscutere sugli scenari di fondo ipotizzati.
Cominciando da tale ultimo aspetto, si sottolinea che il 5,4% e il 6% appartengono comunque allo stesso intervallo di valori inflattivi: 5%-8% , inflazione leggera e non transitoria; quindi il dato del 13 luglio non cambia “al ceteris paribus” attuale le conclusioni delineate nel precedente intervento: tra settembre e novembre picco di valori inflattivi con massimi nella zona 7,5 -8%, inflazione nel 2022 intorno al 5%, e nel 2023 intorno al 3,5%.
Va analizzato però il bias dello 0,6%, a cosa è stato dovuto, almeno per le stime qui presentate; innanzitutto, il primo elemento viene da una debolezza del mercato del lavoro più accentuata di quella attesa, sia nelle dinamiche salariali, sia nell’incremento degli occupati (infatti, è della settimana scorsa il dato del Dipartimento del lavoro statunitense con 375.000 richieste di sussidi disoccupazione settimanali a fronte dei 350.000 attesi); ora, sia la mancata accelerazione del numero di occupati sia la scarsa dinamica salariale media (incremento 3%) appartengono a questi tempi moderni, e in articoli precedenti ne abbiamo già parlato: quando riparte l’economia, il reintegro dei posti di lavoro persi è lento e difficoltoso (ciò probabilmente è dovuto all’automazione dei processi produttivi e al grosso cambiamento nei servizi a motivo dei progressi informatici) e la dinamica salariale che stenta e languisce è dovuta a sindacati deboli e disorientati.
L’altro motivo del bias sovrastimante dello 0,6% è dovuto alle aspettative degli operatori; in sostanza chi scrive le ha ipotizzate leggermente più toniche, mentre nei fatti alle rassicurazioni di Powell e della Fed è stata data robusta aderenza.
Al contrario, ora per il dato inflazione luglio che verrà pubblicato ad agosto le aspettative degli operatori saranno senz’altro più dinamiche (inizio di minore credibilità alle rassicurazioni Fed) e ciò sarà una pressione incrementativa sul valore di riferimento del 5,4% pubblicato il 13 luglio; come fattore in controtendenza c’è invece al momento un visibile affievolimento della corsa al rialzo dei prezzi del petrolio (questo aspetto tende a spegnere l’inflazione).
In ogni modo, al ceteris paribus attuale delle cose dette sopra, si stima da parte di chi scrive che ad agosto il dato tendenziale che verrà pubblicato e riferentesi a luglio lo troveremo al 5,8% circa; se, invece, il petrolio accelera di nuovo nella seconda parte del mese di luglio e supera gli 80 dollari al barile, si stima inflazione tendenziale al 6,2-6,4%.
Resta sullo sfondo l’eventuale comparsa di stagflazione: secondo chi scrive, già nei fatti è presente in alcuni settori importanti, ad esempio l’edilizia, solamente che al momento ancora si confonde con stimoli alla domanda. Resta il tema importante e attualissimo delle decisioni appena sbloccate in seno all’Opec+: c’è chi afferma che il mancato accordo avrebbe potuto dare seguito a eccesso significativo di offerta e per tale via all’abbattimento dei prezzi del greggio (e quindi dell’inflazione), c’è chi, come lo scrivente, ritiene che non è affatto scontato cosa sarebbe accaduto ai prezzi; anzi, chi scrive crede che una prolungata mancanza di accordi e decisioni sarebbe potuta essere la miccia per andare sopra i 100 dollari al barile sicuramente entro sei mesi.
Infine, i rendimenti del decennale statunitense sono in aumento proprio per le pressioni inflazionistiche inattese e per la spinta di aspettative non più tanto rilassate da parte degli operatori. L’oro, come da funzione notarile che gli è propria, in crescita per inflazione in crescita.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.