«What kind of man are you?» «Che razza di uomo sei?». Una domanda che torna più di una volta sulla bocca di due diversi personaggi in un paio di ben precisi momenti del film. Un dubbio che -sul grande schermo, durante la storia che vi è narrata – non riceve alcuna risposta dal diretto interessato. Eppure, un quesito certo non di secondo piano, visto il titolo dell’opera in questione: The Man Who Wasn’t There, L’uomo che non c’era, che nel 2001 – in chiusura della 54ª edizione del Festival di Cannes, la cui Palma d’oro per il miglior film va a La stanza del figlio di Nanni Moretti – vale allo statunitense Joel Coen il premio per la miglior regia, assegnatogli ex aequo con il connazionale David Lynch (per il suo Mulholland Drive) dalla giuria presieduta da Liv Ullmann. E anche gli spettatori potrebbero fare propria questa domanda, riferendola direttamente all’oggetto della loro attenzione: «Che razza di film sei?».
Partiamo dagli “ingredienti”. Due scatenati – almeno in fatto di cinefilia, classe e genio – fratelli di Minneapolis ben saldi al timone per quanto riguarda sia la sceneggiatura che la regia. «Il film è nato in modo strano. So che può sembrare buffo, ma è la verità: l’idea è nata da un poster sui tagli di capelli. […] Il film narra la storia di un barbiere, in California, alla fine degli anni ’40. In realtà, fare il barbiere non gli piace. Vorrebbe entrare nell’affare del lavaggio a secco. Scopre che sua moglie ha una relazione con il suo capo. Nel tentativo di entrare nell’affare del lavaggio a secco, Ed mette in moto una serie di eventi. Coinvolge sua moglie, e l’amante di sua moglie, con tragiche conseguenze per tutti» (Joel Coen). «L’idea è nata da un elemento della scenografia di Mister Hula Hoop [1994, ndr]. Una scena del film era ambientata in un negozio di barbiere. Sul muro c’era un poster, che mostrava i diversi tagli di capelli in voga negli anni ’40. Finito il film, tenemmo il poster per il nostro ufficio. L’idea ci è venuta così. […] Il negozio di barbiere fa solo da sfondo. La storia è decollata quando abbiamo inserito il lavasecco. In quel momento abbiamo capito che potevamo vendere la nostra storia» (Ethan Coen).
Le atmosfere e i tagli di luce dei grandi noir americani degli anni Quaranta: tra questi, Il mistero del falco (1941, John Huston), La fiamma del peccato (1944, Billy Wilder), Vertigine (1944, Otto Preminger), Il grande sonno (1946, Howard Hawks) e Notorious – L’amante perduta (1946, Alfred Hitchcock). Gli occhi e le mani di uno dei migliori direttori della fotografia di sempre, uno dei maghi viventi tra gli operatori della macchina da presa: il britannico Roger Deakins (1949), che grazie a questa pellicola riceve la sua quinta candidatura all’Oscar – per Le ali della libertà (1994), Fargo (1996), Kundun (1997) e Fratello, dove sei? (2000) quelle precedenti – in otto anni; una statuetta che, dopo altre otto nominations senza esito, gli viene posta finalmente tra le mani solo in tempi recenti, per Blade Runner 2049 (2017) e 1917 (2019).
Le note – quasi esclusivamente quelle del pianoforte – di Ludwig van Beethoven: le sonate n. 8 (“Patetica”), n. 14 (“Al chiaro di luna”), n. 15, n. 23 (“Appassionata”), n. 25 e n. 30 e il Trio per archi e pianoforte n. 7 (“Arciduca”: tra l’altro, l’ultima esibizione pubblica alla tastiera del rivoluzionario artista di Bonn…).
I caratteri del protagonista che paiono rimandare a quelli di uno dei personaggi letterari più rappresentativi del Novecento: quell'”assurdo”, modesto impiegato algerino di nome Meursault conficcato al centro di Lo straniero (1942) di Albert Camus, come l’aiuto barbiere californiano Ed(ward) Crane lo è di questo film. E, last but not least, effettivamente al cuore di tutto, un immenso e impagabile Billy Bob Thornton, a dare voce e corpo – dall’inizio alla fine – a quest’uomo dal «metabolismo un po’ lento» (Coen dixit).
Ancora oggi, dopo vent’anni, basterebbe leggere qui di seguito le sue ultime parole nello script per sobbalzare e correre a recuperare il film per intero: «E ora sono qui. All’inizio non riuscivo a capire come ci fossi finito. Rivedevo questa storia passo dopo passo, così come ve l’ho raccontata, passo dopo passo. Ma non comprendevo il disegno generale. Ora che la fine si avvicina, sono felice che una rivista per uomini abbia comprato le mie memorie: scrivendo la matassa si dipana. Mi pagano cinque cents a parola, perciò perdonatemi se a volte mi sono un po’ dilungato. Ora tutti i brandelli si sono cuciti insieme. È buffo andarsene in questo modo: sai esattamente quando morirai. Quella rivista per uomini voleva sapere come mi sentivo. Beh, era come osservare un labirinto da lontano. Mentre ci sei dentro, procedi senza pensare: svolti dove credi di dover svoltare, sbatti il muso in fondo ai vicoli ciechi e vai avanti così. Ma appena te ne allontani, tutte quelle curve e quelle svolte compongono il disegno della tua vita. È difficile da spiegare, ma vederlo nel suo insieme ti procura una sorta di pace. La rivista per uomini voleva sapere se avevo rimorsi. Sì, certo, mi dispiace per tutto il dolore che ho causato. Ma non rimpiango niente, assolutamente niente. Una volta sì, rimpiangevo di essere solo un barbiere. Non so dove mi porteranno dopo, non so cosa troverò oltre il cielo e la terra. Ma non ho paura di partire. Forse le cose che non capisco lì saranno più chiare, come quando la nebbia si dirada. Forse Doris sarà lì. E forse lì le potrò dire tutte quelle cose che qui non hanno parole».
Stando a una delle recensioni apparse alla sua uscita nelle sale italiane, si tratta di «[u]n film […] sul sentimento di estraneità al mondo, sull’impossibilità di sfuggire alla volgarità del presente». Dopo vent’anni, è forte la sensazione che questi 105 minuti siano diventati ora qualcosa di più e di diverso: una sorta di promemoria ma anche di antidoto. Per che cosa? A chiunque tocca porre la propria risposta.
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