Dopo la reazione dei partner commerciali agli obiettivi “green” dell’Unione europea al 2035 ieri è stata la volta dei Paesi membri. Il Financial Times, per esempio, ieri dava conto delle preoccupazioni di Francia, Spagna, Italia e altri Paesi membri per i possibili impatti sui cittadini del nuovo piano europeo. Il piano avrà un profondo impatto sulla vita di cittadini e imprese; Timmermans, vice-presidente esecutivo della Commissione, ha dichiarato che “chiederemo molto ai nostri cittadini e chiederemo molto alle nostre imprese ma lo facciamo per una buona causa”.
L’ultima parte di questa frase suona sinistra, perché l’applicazione dall’alto al basso di obiettivi climatici decisi dalla “scienza”, con strumenti su cui c’è tanta ideologia e discrezionalità, “per una buona causa”, solleva naturalmente la domanda su quali siano esattamente questi sacrifici e poi su cosa succederebbe se i cittadini a un certo punto decidessero di non essere d’accordo.
Il problema non è da poco perché nel caso specifico il rischio è che le famiglie si rendano conto di quello che è successo solo a cose fatte, con le imprese che hanno già chiuso, le centrali tradizionali terminate e le macchine già rottamate senza sapere, per esempio, se le auto elettriche costeranno uguale, il doppio o il triplo di quelle tradizionali.
Dicevamo che gli Stati membri, spinti non solo dalle proprie imprese, protestano di fronte allo sconvolgimento che il piano europeo comporta. I commenti extraeuropei al piano sono tutti, per la cronaca, impregnati di una certa incredulità di fronte al costo politico ed economico che il piano comporta. Sembra quasi che dicano: “Anche noi facciamo proclami green e costruiamo qualche pala eolica, ma non ci sogneremmo mai di rischiare una cosa simile sulla pelle dei nostri cittadini”.
La contrapposizione tra Unione europea e Paesi membri è emblematica perché i governi e i politici dei secondi prima o poi dovranno fare i conti con le conseguenze elettorali, sociali e politiche di questo piano. Dovranno in sostanza spiegare ai cittadini perché la bolletta del gas è salita così tanto, perché quell’azienda ha chiuso e perché cosi tante persone non si possono più permettere una macchina nuova. Questo è un problema che a Bruxelles non esiste o esiste in maniera molto minore essendo la rappresentatività politica molto più indiretta.
Questa contrapposizione è emblematica dei rischi che si corrono. Non solo quello di accelerare, buttando a mare una tecnologia che ci ha dato la prosperità, abbracciandone una che oggi non è compatibile con il nostro stile di vita: si pensi solo al problema irrisolto dell’immagazzinamento dell’energia. Il secondo rischio è quello che fa più paura: uno Stato che decide di imporre sacrifici veri e un cambiamento radicale di stile di vita a cittadini inconsapevoli in nome di un modello sociale ritenuto “scientificamente” migliore. Una scienza che sembra nascondere un’ideologia quasi religiosa che non si preoccupa minimante né del buon senso, migliorando gradualmente quello che c’è, né dei “piccoli”. Ai piccoli ci penserà lo Stato con un “fondo sociale”.
Queste “rivoluzioni scientifiche” decise e applicate in questo modo difficilmente raggiungono l’utopia che si prefiggono. Di solito, anzi, partoriscono mostri. Il colore di questa rivoluzione sembra verde, ma grattando senza nemmeno troppa decisione si vede tanto rosso.
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