Estate, tempo di letture rilassate, ovvero tempo di gialli, come La bambola cieca di Giorgio Scerbanenco (La Nave di Teseo, 2020). La figura del detective, questa volta, è quella dell’archivista Jelling, che era comparso per la prima volta in A sei giorni di preavviso; data la buona accoglienza di questa sua prima prova investigativa, seguì presto, nel marzo 1941, La bambola cieca, appunto, il secondo giallo bostoniano di Scerbanenco.
L’ambientazione è quella che l’autore amava maggiormente: una clinica. Perché questa predilezione per l’ambiente ospedaliero? In varie lettere, come ricorda la figlia Cecilia nella Prefazione, Scerbanenco racconta del suo progetto – o sogno – di iscriversi a medicina, e di specializzarsi nella neonata branca della neuropsichiatria, un proposito da cui dovette desistere a causa delle difficoltà degli anni precedenti il secondo conflitto mondiale prima, e poi a causa dello scoppio della guerra. Il progetto restò appunto tale, ma, in fondo, quello che spingeva Scerbanenco verso questo tipo di interessi era lo stesso motore che l’aveva sospinto verso la scrittura: il desiderio di indagare l’animo umano, e, in particolare, l’ambito dell’etica e la pulsione istintuale verso la giustizia, propria di ogni uomo.
Il romanzo ha quindi una trama dominata da una questione medica. Alberto Déravans è un uomo ricchissimo, diventato cieco per le conseguenze di un incidente stradale avvenuto due anni prima dei fatti narrati nel racconto: l’auto del magnate si scontra con quella di Evelina Soldier; nell’urto Déravans perde la vista, ma trova anche l’amore; prima di accettare la proposta di matrimonio, però, la signorina Soldier vuole che il fidanzato recuperi la vista, cosa non facile, dato che tutti i migliori oftalmologi consultati nel Vecchio Mondo si dichiarano impotenti.
Al ritorno negli Stati Uniti, però, Deravans conosce il professor Linden, un luminare dell’oftalmologia, che dichiara di essere in grado di ridargli la vista con una delicata operazione. Tuttavia, pochi giorni prima dell’appuntamento già fissato in sala operatoria, un uomo vestito di marrone, per strada, abborda il professor Linden: è una fredda giornata di gennaio, ed è naturale che i lineamenti dello sconosciuto siano poco distinguibili, riparato com’è da berretto e sciarpa. Le parole che l’uomo misterioso rivolge al grande oculista sono una chiara e terribile minaccia: se opererà il miliardario, e gli restituirà la vista, pagherà quest’atto con la vita.
Linden si rivolge allora alla polizia, denunciando l’accaduto e chiedendo una scorta di due uomini sino al giorno dell’operazione, deciso com’è a non tirarsi indietro dall’impegno preso, forse anche per i ventimila dollari – cifra all’epoca astronomica – che gli avrebbe reso l’operazione.
Tale è l’enigma su cui si trova a lavorare l’archivista Jelling, ed è un poliziesco classico, talmente teso e complesso che ci si vedrebbe bene all’opera Hercule Poirot. A differenza del piccolo investigatore belga, maniaco di ordine e metodo e adoratore delle “celluline grigie”, però, l’archivista Jelling si definisce un intuitivo, e scopre indizi e colpevoli quasi annusando l’aria; essendo, inoltre, un timido, riesce a cogliere anche i messaggi non verbali, che si annota, mentalmente, oppure su foglietti spiegazzati che conserva in tasca per unirli a tempo debito e ricomporre, in tutti i sensi, il puzzle del delitto.
Nella Bambola cieca, però, ci sono anche elementi che sembrano anticipare i gialli in cui a farla da padrone è l’elemento scientifico, alla Csi, diremmo oggi; potrebbe trattarsi, forse, di un omaggio al giallo a enigma classico, ottenuto attraverso l’idea di spingere all’estremo i minuscoli indizi raccolti dallo Sherlock Holmes di turno? Oppure un consapevole farsi beffe degli stereotipi di questo genere letterario, mostrando quanto possano essere cervellotici e distaccati dalla realtà?
Come che sia, quello che spicca in queste pagine è l’animo generoso e nobile dell’archivista Jelling, una figura di detective idealista, che pensa ancora alla medicina come a una missione (mentre, di contro, il grande medico è molto, molto venale); ma anche in questa vicenda gialla troviamo quel pessimismo sul genere umano che caratterizzerà sempre più massicciamente l’autore, e che Scerbanenco dispenserà a piene mani dopo le dure esperienze della guerra.