Le facce che spariscono e la solita storia

Le facce passano, ma la cornice del Mezzogiorno resta immobile. E i dati Invalsi lo confermano, ponendoci davanti a un abisso

Le facce raccontano la storia meglio di ogni scritto quando sono quelle giuste che parlano di sé e del proprio  tempo  senza aprire bocca. Deve essere quella giusta che che poi diventa icona e che rapisce i cuori perché dice tutto di sé e del suo tempo senza bisogno di spiegazioni. Come quella di Giancarlo Siani (1959-1985) con il simbolo della pace sulle guance, gli occhiali grandi ed il volto da ragazzo. Ammazzato dalla camorra per la sua pulizia, per il suo essere un puro cronista. Dei suoi mille pezzi dedicati alla cronaca di quartieri periferici molti parlavano di ragazzini relegati ai margini, in luoghi decrepiti portati per mano nel violento abbraccio della criminalità organizzata mentre Stato e Camorra sancivano patti.

Trent’anni dopo quella stessa faccia trovò un volto che le aveva rubato la luce e per la prima volta sembrò di vedere la purezza di Giancarlo nella fattezze di Libero De Rienzo. In Fortapàsc Marco Risi animò le foto degli anni ottanta ma non fece alcuna fatica a ritrovare quei luoghi e quelle facce, grazie a De Rienzo, e a quei nugoli di ragazzini che ancora vivevano nel mito dei clan e della camorra. Le facce passano, tragicamente o solo assieme al tempo che se le porta via, e resta però la cornice tremendamente immobile del Mezzogiorno come se la narrazione di quel disagio sociale sia un loop temporale in cui cambiano solo gli abiti e i narratori ma la sostanza resta la stessa.

Nessun racconto del Mezzogiorno pare sia riuscito nell’intento di provocare un cambiamento reale ed anzi i suoi narratori si sono susseguiti quasi sempre denunciando, analizzando o raccontando la stessa storia che appare a tratti immobile. Cambia l’approccio del narratore o il talento di chi racconta, ma il sostrato narrativo e descrittivo sembra immutabile. Generazioni di ragazzini, non scolarizzati, abbandono di ogni speranza di lavoro vero, il divario tra quartieri, città e regioni aumenta, alimentato dalla carenza di ogni tangibile iniziativa per modificare radicalmente lo status quo.

Sembrerebbe un esercizio di tautologia narrativa se non fosse che i dati danno ancora per buono, purtroppo, lo stesso contesto. Gli ultimi sono i dati Invalsi per l’anno 2020/21, comunicati da qualche giorno, che fotografano la preparazione dei ragazzi in età scolare.

Un disastro delle proporzioni di un cataclisma sociale. Per dirla con le stesse parole di chi ha redatto il rapporto: “la scuola primaria nel Mezzogiorno fatica maggiormente a garantire uguali opportunità a tutti, con evidenti effetti negativi sui gradi scolastici successivi”; nelle scuole medie “i divari territoriali tendono ad ampliarsi In tutte le materie le perdite maggiori di apprendimento si registrano tra gli allievi che provengono da contesti socio-economico-culturali più sfavorevoli” per finire alle superiori; “in  tutte le materie le perdite maggiori di apprendimento si registrano in modo molto più accentuato tra gli allievi che provengono da contesti socio-economico-culturali più sfavorevoli, con percentuali quasi doppie tra gli studenti provenienti da un contesto svantaggiato rispetto a chi vive in condizioni di maggiore vantaggio”. In tutti i gradi di istruzione “i divari territoriali si ampliano maggiormente passando dalle regioni del Centro-Nord a quelle del Mezzogiorno”.

Nella sostanza si dà la colpa alla didattica a distanza, ma il vero tema è che anche chi è avanti negli studi, alunni per i quali la Dad è piccola frazione del percorso, dimostra di non avere, in oltre il 50% dei casi, alcuna formazione minimamente aderente alla presunta età scolare. In pratica un diplomato su due è fermo alle scuole medie.

Dove le troveremo quelle facce, dove saranno quei ragazzi tra qualche anno? Certamente non guideranno il boom delle start-up innovative e non promuoveranno nessuna rivoluzione tecnologica. Non hanno strumenti, preparazione e percezione per capire quanto sia vasto il baratro sotto i loro piedi. Potranno al massimo dedicarsi ad attività manuali a scarso valore aggiunto e sperare di incrociare un buon artigiano che li formi. Ma resteranno indietro nella sfida per la Next Generation Eu, perché neppure sanno cos’è. Avranno, purtroppo, in troppi casi le facce truci di baby spacciatori, di manovalanza criminale arruolata per disperazione e somiglieranno agli unici miti accessibili, ovvero quei boss criminali che solo col dialetto e la pistola hanno fatto i soldi. E avranno le facce tremendamente simili a quelle dei ragazzini persi degli anni 80, dei decenni precedenti e di quelli venuti dopo, spavaldi e arroganti, umani e terrorizzati al punto di reagire col terrore ad una vita senza basi, senza conoscenza.

Troveranno anche loro qualcuno che li racconti, o forse si stanno già raccontando loro sui social che usano senza capire come funzionano, mostrando i loro volti senza nessuno che li racconti per davvero. Facce che cambiano come attori dello stesso copione, simili a chi li ha preceduti, assieme ai volti dei politici che li hanno fino ad ora solo invocati e mai redenti.

Se c’è un tempo perché la storia cambi è questo, perché i volti siano diversi e raccontino un’altra storia, relegando al passato remoto un’attualità che non possiamo più tollerare.

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